lunedì 30 ottobre 2017

Tutti a Bagnacavallo!

I disastri della guerra
Incisione n° 36: Neppure 

Stammi bene a sentire: se ne hai la possibilità, cioè se non abiti troppo lontano (e in questo caso “troppo” vuole dire molto, molto lontano), mettiti subito un appunto da qualche parte e poi non dimenticarti di salire in macchina e di andare a Bagnacavallo entro il 19 novembre. No, non è che il 20 buttino giù Bagnacavallo, è che tu devi andarci prima.

Bagnacavallo è un paesino a una ventina di chilometri a ovest di Ravenna. Poco meno di 17.000 anime, frazioni comprese, che vivono nella pianuira romagnola. Un paese come tanti, neanche particolarmente bello. Però tu devi andarci entro il 19 novembre perché lì, a Bagnacavallo, in via Vittorio Veneto, c'è il Museo Civico e appese al muro del Museo Civico ci sono delle meraviglie: i quattro cicli di incisioni di Goya: Le tauromachie, I Capricci, I disastri della guerra e Le Follie. Se Tauromachie, Capricci e Follie sono stupendi, i Disastri sono sconvolgenti. 80 capolavori, un misto di acqueforti e acquetinte, lavorate anche al bulino a alla puntasecca. 80 capolavori, sì, ma in realtà un solo capolavoro, un'opera multipla che si guarda come un libro. 
 
Io le ho scoperte tardi, nel '79. Guardavo un po' a caso dei libri su una bancarella parigina e ne ho trovato uno, edito negli Stati Uniti, dove c'erano tutte. L'ho pagato 28 Franchi, che oggi sarebbero poco più di 4€, ma che allora ne valevano facilmente una trentina. Lo so perché sulla prima pagina interna c'è ancora il prezzo scritto a matita, 28F.

Una dozzina di anni dopo ero a Varsavia, con una fidanzata polacca che si chiamava Agata. Era domenica ed eravamano andati a fare quattro passi in un parco. Appena fuori dal parco c'era una galleria d'arte, o forse un piccolo museo, non ricordo. All'esterno era appeso un manifesto con delle cose scritte in polacco, ma ciò che dominava era il dettaglio ingrandito di una delle incisioni. Siamo entrati, abbiamo guardato tutto e quando siamo usciti ho capito che non ero più lo stesso. Ho capito che avevo vissuto uno di quei momenti che ti cambiano la vita. Come la prima volta che ho visto il Taj Mahal. O come quando ho sentito la Wanderer Fantasie di Schubert suonata dal vivo da Vladimir Ashkenazy. O come la volta che ho mangiato un'incredibile zuppa inglese in un ristorante di Ferrara. Ci sono momenti così: satori (che, se non lo sapessi, è quella parola giapponese che deriva da satoru, rendersi conto, e che nel buddismo zen indica l'esperienza del risveglio inteso in senso spirituale, nel quale non ci sarebbe più alcuna differenza tra colui che si "rende conto" e l'oggetto dell'osservazione, dixit Wikipedia). Quella parola l'avevo scoperta molti anni prima, leggendo Ginsberg e poi Kerouac. 
 
Comunque sia, devi andare a Bagnacavallo. I disastri della guerra sono la più bella denuncia della guerra, la più forte, la più densa, la più straordinaria mai concepita da mente umana. È un sorprendente cocktail di crudo realismo, di fantasia, di allegorie e di metafore. Goya ci ha lavorato per dieci anni, quando era già diventato sordo in seguito a una malattia che forse era sifilide e forse avvelenamento dal piombo contenuto nei pigmenti dei colori che usava. Così nacquero le Pinturas negras esposte al Prado, dove c 'è anche quel Cane sepolto nella sabbia da brividi. Da un lato Goya portava avanti il suo lavoro di “pittore del re”, carica che gli era stata conferita nel 1786; dall'altro produceva capolavori che teneva nascosti, scandagliando gli aspetti più oscuri dell'animo umano. I Disastri furono pubblicati solo dopo la sua morte, avvenuta a Bordeaux, dove si era rifugiato per sfuggire alle persecuzioni di Ferdinando VII.

I Disastri della guerra ci parlano delle atrocità commesse dall'esercito napoleonico, che penetrò nel Paese nel 1808 e ne fu cacciato a calci nel sedere nel '14. Sì, lo so, ho sempre detestato con tutto il cuore il macellaio di Aiaccio, l'arrogante nanerottolo la cui smisurata ambizione ha messo a ferro e a fuoco vaste porzioni d'Europa provocando la morte di almeno 5 milioni di persone. È quindi naturale che un'opera così antinapoleonica mi interessi particolarmente. Ma ciò che c'è di straordinario in Goya è che il suo orrore per la guerra non si ferma lì: il Disastro n° 58, intitolato Populaglia, ritrae due spagnoli che infieriscono su un cadavere; il 44, Yo lo vi, mostra che, mentre una madre cerca di calmare il figliolo disperato, un curato scappa tenendosi stretta la sua borsa; nel 71, Contra el bien general, un essere mostruoso, con ali da pipistrello e unghie da rapace scrive nuove leggi mentre il popolo alle sue spalle si dispera.

Il ciclo termina con due immagini, Morì la verità e Se resuscitasse? Nella prima la Verità è sul suo letto di morte, come una Madonna, attorniata da grottesche figure ecclesiastiche. Nella seconda c'è l'unico tratto di speranza di tutta la serie: la Verità forse un giorno potrà risorgere.

Te lo ripeto: devi andare a Bagnacavallo.