lunedì 30 ottobre 2017

Tutti a Bagnacavallo!

I disastri della guerra
Incisione n° 36: Neppure 

Stammi bene a sentire: se ne hai la possibilità, cioè se non abiti troppo lontano (e in questo caso “troppo” vuole dire molto, molto lontano), mettiti subito un appunto da qualche parte e poi non dimenticarti di salire in macchina e di andare a Bagnacavallo entro il 19 novembre. No, non è che il 20 buttino giù Bagnacavallo, è che tu devi andarci prima.

Bagnacavallo è un paesino a una ventina di chilometri a ovest di Ravenna. Poco meno di 17.000 anime, frazioni comprese, che vivono nella pianuira romagnola. Un paese come tanti, neanche particolarmente bello. Però tu devi andarci entro il 19 novembre perché lì, a Bagnacavallo, in via Vittorio Veneto, c'è il Museo Civico e appese al muro del Museo Civico ci sono delle meraviglie: i quattro cicli di incisioni di Goya: Le tauromachie, I Capricci, I disastri della guerra e Le Follie. Se Tauromachie, Capricci e Follie sono stupendi, i Disastri sono sconvolgenti. 80 capolavori, un misto di acqueforti e acquetinte, lavorate anche al bulino a alla puntasecca. 80 capolavori, sì, ma in realtà un solo capolavoro, un'opera multipla che si guarda come un libro. 
 
Io le ho scoperte tardi, nel '79. Guardavo un po' a caso dei libri su una bancarella parigina e ne ho trovato uno, edito negli Stati Uniti, dove c'erano tutte. L'ho pagato 28 Franchi, che oggi sarebbero poco più di 4€, ma che allora ne valevano facilmente una trentina. Lo so perché sulla prima pagina interna c'è ancora il prezzo scritto a matita, 28F.

Una dozzina di anni dopo ero a Varsavia, con una fidanzata polacca che si chiamava Agata. Era domenica ed eravamano andati a fare quattro passi in un parco. Appena fuori dal parco c'era una galleria d'arte, o forse un piccolo museo, non ricordo. All'esterno era appeso un manifesto con delle cose scritte in polacco, ma ciò che dominava era il dettaglio ingrandito di una delle incisioni. Siamo entrati, abbiamo guardato tutto e quando siamo usciti ho capito che non ero più lo stesso. Ho capito che avevo vissuto uno di quei momenti che ti cambiano la vita. Come la prima volta che ho visto il Taj Mahal. O come quando ho sentito la Wanderer Fantasie di Schubert suonata dal vivo da Vladimir Ashkenazy. O come la volta che ho mangiato un'incredibile zuppa inglese in un ristorante di Ferrara. Ci sono momenti così: satori (che, se non lo sapessi, è quella parola giapponese che deriva da satoru, rendersi conto, e che nel buddismo zen indica l'esperienza del risveglio inteso in senso spirituale, nel quale non ci sarebbe più alcuna differenza tra colui che si "rende conto" e l'oggetto dell'osservazione, dixit Wikipedia). Quella parola l'avevo scoperta molti anni prima, leggendo Ginsberg e poi Kerouac. 
 
Comunque sia, devi andare a Bagnacavallo. I disastri della guerra sono la più bella denuncia della guerra, la più forte, la più densa, la più straordinaria mai concepita da mente umana. È un sorprendente cocktail di crudo realismo, di fantasia, di allegorie e di metafore. Goya ci ha lavorato per dieci anni, quando era già diventato sordo in seguito a una malattia che forse era sifilide e forse avvelenamento dal piombo contenuto nei pigmenti dei colori che usava. Così nacquero le Pinturas negras esposte al Prado, dove c 'è anche quel Cane sepolto nella sabbia da brividi. Da un lato Goya portava avanti il suo lavoro di “pittore del re”, carica che gli era stata conferita nel 1786; dall'altro produceva capolavori che teneva nascosti, scandagliando gli aspetti più oscuri dell'animo umano. I Disastri furono pubblicati solo dopo la sua morte, avvenuta a Bordeaux, dove si era rifugiato per sfuggire alle persecuzioni di Ferdinando VII.

I Disastri della guerra ci parlano delle atrocità commesse dall'esercito napoleonico, che penetrò nel Paese nel 1808 e ne fu cacciato a calci nel sedere nel '14. Sì, lo so, ho sempre detestato con tutto il cuore il macellaio di Aiaccio, l'arrogante nanerottolo la cui smisurata ambizione ha messo a ferro e a fuoco vaste porzioni d'Europa provocando la morte di almeno 5 milioni di persone. È quindi naturale che un'opera così antinapoleonica mi interessi particolarmente. Ma ciò che c'è di straordinario in Goya è che il suo orrore per la guerra non si ferma lì: il Disastro n° 58, intitolato Populaglia, ritrae due spagnoli che infieriscono su un cadavere; il 44, Yo lo vi, mostra che, mentre una madre cerca di calmare il figliolo disperato, un curato scappa tenendosi stretta la sua borsa; nel 71, Contra el bien general, un essere mostruoso, con ali da pipistrello e unghie da rapace scrive nuove leggi mentre il popolo alle sue spalle si dispera.

Il ciclo termina con due immagini, Morì la verità e Se resuscitasse? Nella prima la Verità è sul suo letto di morte, come una Madonna, attorniata da grottesche figure ecclesiastiche. Nella seconda c'è l'unico tratto di speranza di tutta la serie: la Verità forse un giorno potrà risorgere.

Te lo ripeto: devi andare a Bagnacavallo.
 

venerdì 27 ottobre 2017

Poi finisco sempre sul sito della Crusca

La Sala delle Pale dell'Accademia della Crusca




Stavo leggendo un articolo di giornale quando sono incappato nell'aggettivo gerosolimitani. Il contesto rendeva chiaro che i gerosolomitani sono gli abitanti di Gerusalemme. Lo ignoravo.

Mi è allora venuto in mente che in Francia gli abitanti della città di Charleville-Mézières si chiamano carolomacériens. Chissà se in italiano si chiamano carolomaceriani, mi sono chiesto. Ho cercato e non ho trovato. La cosa non mi ha stupito, visto che gli italiani che conoscono anche solo l'esistenza di Charleville-Mézières sono pochi. La conosciamo noi marionettisti, visto che è lì che si svolge il più importante festival di teatro di marionette del mondo, e forse la conosce qualche specialista rimbaldiano, ovvero amante di Rimbaud, che di Charleville-Mézières è stato il più famoso rampollo, o magari qualche dotto studioso della vita e delle gesta di Carlo I Gonzaga, che oltre ad avere fondato quella città è stato anche Duca sia di Mantova che del Monferrato. Ma è vero che anche messi tutti insieme, quei marionettisti e quegli specialisti non riempirebbero nemmeno mezzo stadio di football di una squadra di Serie B.

Certe volte però se non trovi subito una cosa su Wikipedia in una lingua è possibile trovarlo cercando in un'altra. Sono andato sulla pagina Wikipedia di Charleville-Mézières in francese e ho trovato conferma del nome dei suoi abitanti. La cosa che però mi ha incuriosito è stato che quel nome, carolomacériens, è definito come gentilé. Ancora una parola sconosciuta. Ho cliccato su gentilé e poi, vedendo che esisteva anche una pagina in italiano sulla stessa parola sono andato a guardarmela. In italiano però mi si è aperta una pagina intitolata Etnico (onomastica). Il mistero si infittiva.

Ho visto che in italiano l'etnico, o demotico, o patrionimico, o antrotoponimo, è il nome o aggettivo che descrive come vengono chiamati gli abitanti di un Paese, di un'area geografica, di un insediamento urbano come frazioni, comuni, o città. […] Talvolta si usa, allo stesso scopo, gentilizio, (nome gentilizio, specie in riferimento alla classicità) che però, a rigore, è di una famiglia o di una stirpe. Lo ctetico in greco e latino era l'aggettivo etnico, per esempio Gallicus e Germanicus; oggi questa distinzione non è usata, se non per indicare l'aggettivo riferito a cose, come romanesco invece di romano.

A me queste cose piacciono un sacco. Non so perché, ma quando le scopro godo come un grillo.

Così mi sono letto tutta la pagina, nella quale sono presenti vari etnici irregolari, sia nazionali che geografici e di città. Alcuni li conosciamo tutti: sappiamo che un abitante del Bangladesh è un bengalese, che uno dell'Azerbaigian è un azero (anche se in quel Paese vivono dei non-azeri come i gekad), così come uno che viene dalla valle del Po gode del limnonimo padano e un abitante delle Fiandre del coronimo fiammingo.

Sì, vabbè, neanche io avevo mai sentito parlare di limnonimi (dal greco λίμνη, acqua stagnante, palude, lago, e onimo) e di coronimi (dal greco χώρα, regione, e onimo), ma non importa. Anzi, è bello avere scoperto anche quelle due parole. Ma soprattutto è bello avere scoperto che gli abitanti di Città di Castello sono i tifernati (dal latino Tifernum, antico nome della città), che quelli di Poggibonsi sono i bonizesi (da Poggiobonizio, antico nome della città, derivato lui stesso da tale Bonizzo Segni, signore del luogo) e che quelli di Grottaferrata si chiamano criptensi per via di un gustoso aneddoto che ti copio integralmente: quando, nel 1004, San Nilo da Rossano ed i suoi seguaci presero possesso del terreno rurale occupato da ruderi di una villa romana, che Gregorio I dei Conti di Tuscolo aveva loro donato come residenza, notarono subito un locale a volta quasi perfettamente conservato dotato di una finestra con ferrata. Probabilmente il primo accampamento dei monaci fu nei paraggi, se non all'interno, della “cripta” ferrata, che diventò elemento caratterizzante del territorio: lentamente l'area, che non aveva una denominazione specifica, prese nome di Cryptaferrata.

Ma soprattutto (soprattutto!) la mia piccola, inutile e quindi goduriosissima ricerca mi ha fatto scoprire l'esistenza di un'opera di Teresa Cappello e Carlo Tagliavini intitolata Dizionario degli etnici e dei toponimi italiani, che mi è parsa così indispensabile da volermela procurare immediatamente in versione digitale al modico prezzo di 9,90€.

Su Google ho trovato un pezzo dell'introduzione all'edizione digitale, scritta dal Professor Paolo D'Achille, docente di Linguistica italiana presso l’Università degli Studi Roma Tre, nonché socio ordinario dell’Accademia della Crusca, direttore de La Crusca per voi, periodico dell'Accademia) e responsabile del servizio di consulenza della stessa. Il Professor D'Achille mi ha fatto salivare informandomi che il Dizionario contiene un repertorio vastissimo (circa 13.000 voci), pressoché completo dei toponimi italiani (o, per meglio dire, dei poleonimi, cioè delle denominazioni dei centri abitati, non limitandosi ai comuni, ma comprendendo anche molte piccole frazioni), corredati dalle denominazioni dei rispettivi etnici. Gli uni e gli altri sono forniti sia nella forma italiana (spesso, nel caso degli etnici, più di una), sia in quella dialettale (con indicazioni sulla pronuncia), e ciò dimostra che l'opera è frutto di una ricerca (ampia e accuratissima) condotta non solo in archivi e biblioteche, ma anche “sul campo” (grazie a inchieste e interviste.

Sì, lo so, uno che scrive usando tutte quelle parentesi e permettendosi anche di mettere una e dopo una virgola può apparire indigesto a molti. Soprattutto nai talebani della lingua. Certo non a me. A me capita di usare la e dopo una virgola, cerco solo di farlo quando ha un senso. A questo proposito non posso peraltro che consigliarti la lettura dell'interessante post Uso della virgola prima della congiunzione e, di Marina Bongi, che troverai qui, sul sito della Crusca. A proposito delle parentesi, ecco qui, sempre sullo stesso sito, il post La punteggiatura, di Mara Marzullo, altrettanto istruttivo.

Adesso basta, devo proprio andare a fare la spesa alla Coopo colligiana (o collegiana, ché entrambi gli etnici sono corretti).



lunedì 23 ottobre 2017

Prima colazione

Non essere impaziente: il significato dell'immagine lo scoprirai leggendo


Tipica prima colazione. Ho il computer aperto e ascolto France Inter, la radio pubblica francese. Mentre addento le mie fette di pane con burro di arachidi e marmellata sorseggiando tè indiano, sfoglio le prime pagine di vari quotidiani italiani e stranieri, leggiucchiandomi qualche mezzo articolo. Poi guardo se qualcuno che non si chiami Amazon o Zalando mi ha scritto, nel qual caso leggo la posta, e infine vado su Facebook. Lì, oltre a trovare cosette varie postate da amici in giro per il mondo — in particolare link verso altri articoli di altri giornali — vedo anche (troppe) pubblicità, (troppe) fesserie e qualche segnalazione più o meno interessante da gruppi e/o compagnie e istituzioni che seguo. Tra queste c'è TED, che organizza conferenze spesso interessanti, ma che certe volte, come stamattina, mi manda a sua volta dei link verso altri articoli.
L'articolo che mi viene segnalato oggi è intitolato Lo strano comitato che in Islanda approva o rifiuta i nomi dei neonati. Non so come reagiresti tu, ma davanti a un titolo del genere io non resisto: leggo.
Scopro così che nell'esotica, ancorché gelida, Islanda i tamarri di servizio non possono chiamare il figlio Elvis o la figlia Deborah con l'h finale. Devono scegliere tra le 1.888 possibilità di nomi maschili e le 1.991 di nomi femminili approvate dal Mannanafnanefnd, il Comitato dei Nomi di Persona, autorità suprema che è lì per assicurarsi che nessun islandese si possa chiamare Elvis o Deborah con l'h finale.
Incuriosito, vado su Google e scrivo icelandic names. Mi si apre allora una pagina un po' generica, nordicnames.de, il cui suffisso de mi indica chiaramente che si tratta di una roba tedesca, anche se per fortuna il sito è in inglese. Sulla sinistra della pagina c'è una lista di bottoni cliccabili che riguardano via via i nomi danesi, faroesi (cioè delle Isole Fær Øer), finlandesi, groenlandesi, islandesi, norvegesi, sami (cioè lapponi) e svedesi. C'è poi un ultimo bottone, Altri nomi nordici, cliccando sul quale scopro altre otto eterogenee possibilità: nomi vichinghi, nomi di neonati nordici, statistiche dei nomi nordici, cognomi nordici, vecchi soprannomi norvegesi, nomi di Astrid Lingren (che è l'autrice di Pippi Calzelunghe), nomi IKEA e infine premi nobel nordici. Turbato dall'aspetto un po' confuso di questa pagina, decido di rimandare a più tardi il probabilmente affascinante studio dei nomi IKEA e torno alla pagina precedente, dove clicco risolutamente sui nomi islandesi. Eccomi su una nuova pagina. Potendo scegliere tra nomi maschili e nomi femminili, scelgo i secondi e da lì vado direttamente alla lettera D. Qual'è il primo nome islandese che mi appare? Debora! Sì, vabbè, senza l'h finale, ma pur sempre Debora!
Ohibò, mi dico, vuoi vedere che Debora è un nome islandese? Clicco su Debora. Anzi, esito un istante perché non c'è solo Debora, c'è anche Debóra. Cosa devo fare? Dò un'occhiata rapida al secondo e scopro che Debóra è solo la forma islandese di Debora. Uff, l'ho scampata bella.
Clicco su Debora. E leggo: forma nordica dell'ebraico דְּבוֹרָה, (Deborah) = ape.
Basito dal fatto che un personaggio biblico abbia portato lo stesso nome del noto semovente a tre ruote della veneranda ditta Piaggio, non resisto alla tentazione di cercare Deborah su Wikipedia. Dopo tutto, mi dico donabbondianamente, Deborah, chi era costei?
Prima di tutto scopro che quel nome, che diventerà Δεββωρα (Debbora) in greco e Debbora in latino, ha lo stesso significato di Melissa, che però viene dal greco μέλισσα (mèlissa), a sua volta derivato da μέλι (mèli), miele, dal quale derivano anche Pamela e Mellito, che però hanno origini molto diverse, visto che Pamela è un nome inventato alla fine del '500 dallo scrittore inglese Philip Sidney a partire dai lemmi greci παν (pan, "tutto") e μελι (meli, "miele") per significare “tutta dolcezza.” Poi vedo che Debora significa “colei che dà miele”, il che è una bella cosa. Vedo anche che ben due personaggi biblici si chiamavano Deborah, una profetessa e una serva di Rebecca, che come tutti sappiamo era la moglie d'Isacco nonché la madre di Giacobbe.
Sconvolto dal fatto che i membri del pur onorabile Mannanafnanefnd possano considerare Debora, o comunque Debóra, come nome tradizionale islandese, decido coraggiosamente di cercare Elvis. E lo trovo! Anche Elvis è considerato islandese, tant'è che fa proprio Elvis al nominativo, all'accusativo e al dativo, mentre diventa Elvisar al genitivo. Echecacchio!
Voglio saperne di più. Scopro che l'etimologia di Elvis è incerta. C'è chi lo fa derivare dall'antico norvegese Alviss, onnisciente, derivato a sua volta dal germanico alla (intero) e dall'antico norvegese viss, saggio; c'è però chi lo fa derivare dall'inglese Elwin, che verrebbe a sua volta da Ælfwine, che deriverebbe o dal protonorvegese albiz (elfo, essere soprannaturale) e dal germanico winiz (amico), oppure dal più recente Æðelwine, dal germanico adal (nobile), unito al già citato winiz.
Piacevolmente sorpreso da queste scoperte che arricchiscono la mia cultura generale di elementi così indispensabili, torno alla lista generale dei nomi islandesi e tanto per curiosità do un'occhiata a quelli che incominciano per A. Fermi tutti! Trovo Akira!
Ma come Akira? Ma Akira non era il nome di Kurosawa? Vuoi vedere che ho sempre confuso il cinema giapponese con quello islandese?
Clicco su Akira e vedo che viene proprio dal giapponese /(akira, luminoso), oppure da (akira, chiaro), che è un po' la stessa cosa, ma non importa. Vedo anche che il venerabile Mannanafnanefnd l'ha accettato come nomle islandese… femminile (!) il 29 novembre del 2013. Incuriosito, vado sul sito del Mannanafnanefnd, dove lo trovo effettivamente, tra Agneta e Alanta, ma senza nessuna spiegazione.
A questo punto sono molto turbato. Perché mai Akira è diventato un nome islandese? Perché è diventato femminile?
Cerco Akira su Wikipedia. Pare che in giapponese sia sia maschile che femminile. Scopro anche che Akira è un cantante, attore e ballerino del gruppo pop Exile, che è il titolo di un manga cyberpunk di Katsuhiro Ōtomo, di un videogioco della Nintendo e di una classe di astronavi in Star Trek. Con rammarico, scopro poi che il nome Akira è adespoto.
E secondo te cosa fa uno quando scopre un nome adespoto? Si precipita sul vocabolario Treccani per vedere cosa cacchio voglia dirte adespoto:

adèspoto (raro adèspota) agg. [dal gr. ἀδέσποτος «senza padrone», comp. di ἀ- priv. e δεσπότης «padrone»], letter. – Propr., senza padrone, e quindi senza nome di autore, anonimo: codice, frammento adespoto
 
A questo punto dalla quantità e dalla qualità delle cose che ho imparato in una sola mattina. La mia prima colazione è finita da un bel po'. Mi sono anche fumato una sigaretta e poi mi sono pure pappato una (succosa) pera. Sono quasi le 9, cioè tardissimo. Sento l'imperioso bisogno di agire. Mò vado a farmi una doccia e a strigliarmi la dentizione, poi andrò a comprarmi il giornale con il quale, come ogni mattina, mi siederò al mio caffè preferito sorseggiando l'espresso preparato da Marilena. Noi pensionati abbiamo vite trepidanti.

sabato 21 ottobre 2017

Kissenefrega e Curtatone e Montanara

Immagine di collisione di due stelle di neutroni


La notizia mi era sfuggita. Forse perché è venuta fuori lunedì scorso, mentre ero in Francia a raccontare la mitologia greca a dei gruppi di studenti delle medie. Tutto preso com'ero a raccontare di Crono che tagliava le palle al babbo Urano e da Paride che voleva fare il furbo dividendo la mela d'oro in tre parti uguali, ai giornali avevo dato solo un'occhiata rapida. Stamattina però qualcuno ha messo la notizia su Facebook ed è così che me la sono letta.
Non che ci fosse fretta, visto che il fatto è successo più o meno 130 milioni di anni fa. Tanto per intenderci, a quei tempi sulla Terra gironzolavano ancora i dinosauri. Erano lì da un po' più di 100 milioni di anni e ci sarebbero restati per altri 65 milioni, fino all'arrivo dell'asteroide che, andando a spetasciarsi dalle parti della penisola dello Yucatan, avrebbe provocato non solo la loro scomparsa, ma anche quella di più del 90% di tutte le specie viventi, animali e vegetali.
La notizia era che in un angolo di cielo dalle parti della costellazione dell'Idra, alla periferia della galassia NGC 4993, che fa parte dell'ammasso della Chioma di Berenice, due stelle di neutroni si erano scontrate. Sono cose che capitano.
Sempre tanto per intenderci, le stelle di neutroni nascono quando una stella massiccia, che è una stella particolarmente calda, luminosa e per l'appunto massiccia, collassa su se stessa. La stella di neutroni ha un diametro di qualche decina di chilometri, ma una massa che può essere anche 3 volte quella del nostro Sole. Il che fa si lei una cosa pesantissima e densissima.
Quando due stelle di neutroni si avvicinano l'una all'altra si attirano, per via della forza di gravità. Incominciano a girarsi intorno sempre più vorticosamente, fino a che bum!, si scontrano e provocano un'esplosione pazzesca. Quell'esplosione, come tutte le esplosioni, provoca delle onde. Basta guardare un telefilm americano per capire che un'esplosione provoca sempre delle onde che, nel caso del telefilm, fanno fare un salto in aria al detective di servizio, che per fortuna si era allontanato abbastanza per uscirne indenne, ma non abbastanza da non fare un volo di vari metri dal quale tu e io usciremmo come minimo con una frattura del bacino, mentre lui se ne viene fuori con un po' di polvere sulla giacca.
L'esplosione di quelle due stelle di neutroni dalle parti della costellazione dell'Idra ci ha messo 130 milioni di anni per farsi sentire da noi. Il che, vista la distanza, è normale. E a dire la verità nessuno se ne sarebbe accorto se nello Stato di Washington, in Louisiana e in provincia di Pisa non fossero esistiti dei rilevatori di onde particolarmente sensibili, messi lì apposta per accorgersi dell'arrivo di quelle onde, che si chiamano onde gravitazionali, cose delle quali abbiamo tutti sentito parlare per la prima volta un paio d'anni fa, ma l'esistenza delle quali era stata prevista prima da Henri Poincaré nel 1905 e poi confermata da Albertino Einstein nel 1916.
Vabbè, mi dirai, ma, usando un'espressione cara al mio amico Andrea, kissenefrega. Certo, un sonoro kissenefrega è sempre possibile. Anche una vita intera fatta di kissenefrega è sempre possibile. Ma che vita sarebbe? Uno schifìo.
Bada bene: non dico affatto che tutti i kissenefrega siano necessariamente negativi. Anzi, sono convinto che sia importante offrirsi dei kissenefrega mirati e ponderati. Sono convinto che sia proprio la scelta dei kissenefrega che fa di ognuno di noi ciò che siamo. Vuoi qualche esempio dei miei personali kissenefrega? Eccoli qua:
Damien Hirst espone le sue ultime opere a Venezia. Kissenefrega!
Claudio Baglioni è il direttore artistico del prossimo festival di Sanremo. Kissenefrega!
Quest'anno vanno di moda i tailleur a doppiopetto. Kissenefrega!
Massimiliano Allegri ha una storia con Ambra Angiolini. Kissenefrega!!!
Così, tanto per farti qualche esempio.
Al contrario, le onde gravitazionali no, manco per niente kissenefrega. Perché? Non lo so. Non ne ho idea.
Perché sono fatto così, perché le onde gravitazionali e le stelle di neutroni e i neutrini e la sovrapposizione di stati onda/particella e i multiversi e tutta quella roba lì mi fa godere come un grillo. Non c'è un perché, o se c'è non mi interessa, kissenefrega, sono fatto così e basta. Chebello chebello chebello. Guarda, l'unica cosa che mi fa girare le scatole è che di quelle cose lì nessuno me ne abbia parlato quando ero bambino, con parole semplici e comprensibili, invece di parlarmi della battaglia di Curtatone e Montanara. Kissenefrega di Curtatone e Montanara e del generale Radetzky!
Ribada bene: non dico che a nessuno, proprio a nessuno debba fregare niente di Curtatone e Montanara. Capisco benissimo che ci sia qualcuno che gode come un grillo pensando a Curtatone e Montanara. In un certo senso mi fa anche piacere. Ma per me quello è un kissenefrega automatico.
I kissenefrega sono importanti. Molto importanti. È grazie a loro che ognuno di noi diventa un individuo diverso da tutti gli altri. Per questo i kissenefrega vanno scelti con cura. Soprattutto al giorno d'oggi, quando, volenti o nolenti, siamo inondati da informazioni che più kissenefrega di così non si può. Sbagliare kissenefrega può significare la differenza tra una vita felice e una tapina, tra un minimo di generosità e un massimo di menefreghismo, tra dignità e ignominia.
Detto questo, vedi tu. Scegliti i kissenefrega che vuoi. Io vado a farmi un caffè.

P.S. Qui l'articolo della rivista Science