mercoledì 9 settembre 2015

Verso una nuova guerra?

La cima del Monte Bianco
 
Si sa, i litigi sulle frontiere hanno provocato numerose guerre nella lunga storia del mondo. E, si sa pure questo, bisogna risalire alla saggezza di Tullo Ostilio, terzo re di Roma, e del suo collega Mezio Fufezio, sovrano di Albalonga, per trovare un conflitto risolto da sei soli combattenti, tre da una parte e tre dall'altra. Ma, sarà perché dopo la vittoria degli Orazi sui Curiazi il re sconfitto venne diligentemente squartato, sarà perché in fondo gli uomini hanno sempre avuto una morbosa passione per guerre e conflitti, i governanti dei cinque continenti non hanno mai esitato a infiammare gli animi con discorsi aulici e altisonanti, destinati a mandare al macello migliaia, vedi milioni di poveri cristi che, fosse stato per loro, sarebbero stati prontissimi a fare il tifo per dei nuovi Orazi e magari anche per dei Curiazi, pur di evitare inutili carneficine.
Va bene, forse sto esagerando un po': tra Italia e Francia non siamo ancora alle minacce di guerra e al bruit de bottes, ovvero rumore di stivali, come amano dire i transalpini. Ventimiglia non sembra in pericolo e Mentone nemmeno. Per ora.
Anche se il litigio è serio, visto che ciò che divide cittadini e citoyens è la sovranità sul cucuzzolo del Monte Bianco.
Ho fatto qualche ricerca e ora, avvalendomi del fatto che godo (si fa per dire) sia del possesso di una carta d'identità italiana che di una carte d'identité française, sono pronto a presentare in questo blog una soluzione pacifica e definitiva che non potrà che essere approvata dai Parlamenti direttamente interessati.
Incominciamo dalla Storia con la S maiuscola. All'inizio il Monte Bianco era semplicemente lì e nessuno si preoccupava di sapere a chi appartenesse. Poi, nella prima metà dell'XI secolo, arrivò un tedesco, Umberto Biancamano, o meglio Humbert mit den weißen Händen. Chi era Umberto Biancamano? Semplice: era figlio di tale Beroldo di Sassonia, nonché pronipote di Ottone II, Duca di Sassonia, che aveva sposato la Principessa Teofano (o Teofania), figlia di Romano II, imperatore di Bisanzio. E Umberto fu fatto Duca di Savoia.
E qui apro una parentesi. Perché mai, ti sarai chiesto/a mille volte, il capostipite dei Savoia si era guadagnato il soprannome di Biancamano? Sapessi quante volte me lo sono chiesto io!... Per fortuna ho trovato la risposta: pare che tutto venga dall'errore di un amanuense poco scrupoloso, che invece di trascrivere blancis moenibus, ovvero "dalle bianche fortezze", ebbe la leggerezza di scrivere blancis manibus, cioè "dalle bianche mani".
E adesso che ti ho risolto questo enigma, chiudo la parentesi e vado avanti.
Il bravo Umberto, volendo ampliare i suoi territori, ordinò al figlio Oddone di sposare la figlia del Marchese di Torino, Adelaide. È così che il nostro sassone trapiantato mise le mani sul territorio di Susa, nonché sul Marchesato di Torino. Naturalmente tutti sappiamo che quell'insieme territoriale finì, attraverso i secoli, per diventare prima Regno di Sardegna, poi Regno d'Italia e infine Repubblica Italiana.
Senonché nel frattempo, per essere più precisi il 22 settembre 1792, mentre a Parigi veniva proclamata la Rébublique Française, la Savoia era invasa e annessa alla stessa République cinque giorni dopo.
Passarono 4 anni. Napoleone si lanciò nella Campagna d'Italia sconfiggendo pesantemente i piemontesi a Cherasco e imponendo un armistizio che faceva della Savoia una terra francese. Il Monte Bianco diventava Mont Blanc.
Per trovare qualche novità bisognerà aspettare il 1860 e il Trattato di Torino, stipulato tra la Francia e il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II, il cui articolo 3 dice:
Una commissione mista determinerà in uno spirito di equità le frontiere dei due Stati, tenendo conto della configurazione delle montagne e delle necessità della difesa.
E infatti la commissione determina: la frontiera tra i due paesi passa, come è logico, dallo spartiacque, ovvero dal cucuzzolo, che è così metà italiano e metà francese. Tutto sembra in ordine, nessuno ha niente da ridire.
Poi arrivano i militari. 
Nel 1865, lo Stato Maggiore transalpino incarica un certo Capitano Jean-Joseph Mieulet, cartografo, di disegnare una cartina militare della zona del Monte Bianco. E cosa fa Mieulet? Senza pensarci due volte, sposta la frontiera di qualche centinaio di metri a valle sul versante italiano e fa del cucuzzolo un semplice sommet!
Ora sappiamo tutti come sono i militari: una volta fatta una cosa, è dura, molto dura per loro, dire che c'è stato un errore. E infatti la carta di Mieulet è ripresa sistematicamente da allora sulle carte dell'État-Major prima e dell'Institut Géographique National poi. Ovviamente le carte italiane non tengono conto della stravagante e univoca decisione di un oscuro capitano con la r moscia, ma i francesi si dicono je m'en fous e nessuno ne parla più.
Passano così un'ottantina d'anni e due guerre mondiali. Poca roba. 
Nel settembre del 1946 tre sindaci francesi, quelli di Saint-Gervais-les-Bains, di Les Houches e di Chamonix-Mont-Blanc, si mettono a litigare: ognuno dei tre pretende di essere sindaco anche del famoso cucuzzolo. Non trovando un accordo, i tre si rivolgono al prefetto, che stabilisce salomonicamente, ancorché avventatamente, che la cima della montagna costituisce il punto d'incontro dei tre territori comunali (e tant pis pour les Italiens).
Il trattato di Parigi del febbraio 1947 sancisce cinque piccole modifiche alla frontiera franco-italiana (tutte a favore della Francia che, contrariarmente all'Italia, aveva avuto la buona idea di vincere la guerra), ma non si pronuncia sul Monte Bianco.
La commissione mista franco-italiana che si riunisce per la prima volta a Nizza nel 1988 dice che la cosa è troppo complicata e che va risolta a livello ministeriale. È così che i ministri mettono su un Gruppo di lavoro ad alto livello che, come tutti i gruppi di lavoro ad alto livello, non decide niente, tanto più che i francesi sostengono che le carte geografiche stabilite dopo l'accordo del 1860 sono andate perse durante l'occupazione tedesca. Pas de problème, rispondono gli italiani, che forniscono una copia di quelle carte, che loro non hanno perso, e dalle quali si deduce che il confine passa dal cucuzzolo. Senonché a quel punto i francesi trovano una foto delle carte perse e, guarda caso, la loro foto mostra che il confine passa più in là.
Nel 1999 il deputato Luciano Caveri, dell'Union Valdôtaine, sottopone al governo italiano un'interrogazione parlamentare alla quale risponde il sottosegretario agli affari esteri Umberto Ranieri, dicendo che la questione resta aperta. 
Nel 2011 Google Maps, che fino ad allora aveva fatto passare la frontiera dal cucuzzolo, la sposta. I francesi sono contenti.
Venerdì scorso poi, pare su richiesta del sindaco di Chamonix, dei militari francesi hanno ufficializzato la loro versione, chiudendo semplicemente a chiave la frontiera. Come si fa a chiudere a chiave una frontiera a più di 4.000 metri di altezza?, mi dirai. Leggi i giornali, bestia!, ti dirò.
Ora, mentre da un lato ci si cinge dell'elmo di Scipio, dall'altro si canta Marchons, marchons!
Io da venerdì me ne vado in giro con i miei due passaporti in tasca. Non si sa mai. 
Ma per concludere, ecco, come promesso, la mia proposta di soluzione pacifica e definitiva del litigio, che non potrà che essere approvata da ambo i Parlamenti interessati: 
“Oh francesi, ma la finite di romperci le palle?”

martedì 8 settembre 2015

Avventure postali


Forse un giorno scriverò un lungo resoconto intitolato “Avventure di un cittadino all'ufficio postale”; oppure un lunghissimo poema epico intitolato “Postìade”; o magari un libro di confessioni, da pubblicare postumo col titolo “Perché alla fine ho preferito suicidarmi”. Intanto poco fa sono andato all'ufficio postale del mio Comune di residenza.
Visto che siamo stati via da casa per quasi un mese, avevamo deciso di beneficiare del servizio “Aspettami”, che prevede che la posta ti aspetti, per l'appunto, fino al tuo ritorno. L'operazione aveva dato adito alla consueta orgia di burocrazia a base di numeri di codice fiscale (sia quello del richiedente che quello della consorte), carte d'indindirindà, documento riempito e firmato per poi essere copiato parola per parola al computer dall'impiegato, consulto con un altro impiegato, che sembrava saperne un po' di più di quello che era capitato a noi, ma che aveva comunque preferito chiedere a un terzo, più anziano, eccetera eccetera.
Stamattina vado allo sportello, dico buongiorno e porgo all'impiegata la ricevuta dell'operazione fatta un mese fa e la mia carta d'indindirindà. Lei mi lascia il documento, prende la ricevuta, la studia per un po', poi dice:
Ah, questa è la cosa... come si chiama... che lei voleva che la posta la tenessimo qui?
Sì, rispondo laconicamente rendendomi conto che il prevedibile calvario non fa che incominciare.
L'impiegata si alza, va da un impiegato maschio, gli fa vedere la ricevuta. Lui le dice che al piano inferiore ci sono delle scatole con su i nomi. Lei sparisce per un certo tempo. Un certo lungo tempo. Poi torna.
Guardi, mi dice, il suo nome non c'è. Posta non ne ha.
No, sbotto malgrado tutte le previe promesse che mi ero fatto, posta ce n'è di sicuro.
E penso soprattutto ai quattro, dico quattro(!) numeri della Settimana enigmistica alla quale sono abbonato grazie alla generosa iniziativa di quella santa donna di mia suocera. E mi trattengo dall'urlare cazzo! Le mie Settimane enigmistiche! Le vogliooo!
Eh..., dice lei tra il dubbioso e il complice.
Poi si gira di nuovo verso il collega maschio che, quasi spazientito, le ripete:
Ma sì, sotto. Chiedi a uno dei postini, ché tanto adesso sono lì.
Nuova sparizione della mia impiegata. Nuovo certo lungo tempo.
Dopodiché appare un'altra impiegata (ammettiamolo: dall'aria più sveglia), con uno smartphone in mano.
È lei per “Aspettami”?, mi chiede.
Sì, rispondo, ormai sull'orlo di una crisi di nervi ad alto tasso depressivo.
La posta non ce l'abbiamo noi, è a Poggibonsi.
Come a Poggibonsi?
Eh, sì, c'hanno diviso le cose, è così. Ma guardi, sono al telefono con la postina, parli pure.
Pronto?
Sì, buongiorno. Se lo sapevo, la posta gliela portavo, ma adesso sono sulla superstrada e c'ho pure una Raccomandata 1 per lei. Ma lei è a casa?
No, sono all'ufficio postale, rispondo trattenendo a stento i singhiozzi.
Ma a che ora c'è a casa?
­— Non so, verso le 11.
Va bene, tanto io prima di mezzogiorno e mezzo non passo. Poi magari l'altra posta gliela porto domani.
Seguono ringraziamenti e saluti. L'impiegata sveglia riattacca il telefono (i lettori più giovani, se non capiscono l'arcaica espressione “riattaccare il telefono”, potranno domandarne il senso a genitori, zii, o nonni), poi si lancia in una confusa spiegazione del fatto che i servizi tra il mio Comune e Poggibonsi sono stati divisi in due, il che, preso parola per parola, non ha molto senso, ma probabilmente ne ha nell'universo parallelo di Burocratolandia.
Se mi fosse stato detto quando ho fatto la pratica, che dovevo andare a Poggibonsi..., azzardo timidamente.
Eh già. Ma sa com'è, certe volte uno non ci pensa.
Non insisto, rendendomi perfettamente conto dell'assurdità del mio sogno di vivere in un universo nel quale anche gli impiegati degli sportelli degli uffici postali pensano.
Saluto e vado a farmi un caffé.