domenica 23 novembre 2014

Il poeta della settimana: Omero

Alle Medie, come tutti, ho studiato l'Iliade. Quell'anno e solo quell'anno ho avuto un insegnante di lettere straordinario. Era uno del Sud, un quarantino, forse calabrese, che parlava con un forte accento. Aveva una specie di modo distaccato di insegnare, sempre al limite dell'ironia e soprattutto dell'autoironia. Contrariamente agli altri insegnanti dava l'impressione di fare il suo lavoro per noi, più che per lo stipendio di fine mese.
È con lui che ho scoperto Omero ed è probabilmente da lì che è nato, o almeno si è strutturato il mio amore per le epopee classiche. Se non ci fosse stato lui probabilmente molto più tardi non avrei amato il Mahabharata indiano, lo Shanameh persiano e l'epopea mandinga di Sunjata.
Di Omero mi piacevano tantissimo le similitudini, che il professore si dilettava a farci commentare. "Perché piangi, o Patroclo, come una bimba, / piccola che corre dalla madre per essere presa in braccio, / le prende la veste, e non la lascia camminare, / ma piangendo la guarda dal basso, perché la prenda in braccio: / a lei assomigli, Patroclo, versando tenere lacrime." Oppure "Come quando un uomo, improvviso scorgendo un serpente, indietreggia / in una balza montana, tremito gli avvolge le gambe, / si allontana e livido diventa il suo viso, / così di nuovo si nascose nel folto dei Troiani gloriosi…"
Oltre alle similitudini però c'erano le liste, due in particolare: la descrizione dello scudo di Achille nel XVIII canto e il catalogo delle navi achee nel II. È questo che ti propongo di (ri)leggere oggi. In realtà adoro tutta l'Iliade, ma un post con il testo integrale sarebbe stato davvero troppo lungo.

Il catalogo delle navi - Iliade Canto II 493-760
[…]
Ma dirò i capi di navi e tutte le navi.
   Dei Beoti Penèleo e Leito erano a capo,
e Arcesílao e Clonio e Protoènore,
Iría abitavano alcuni ed Aulide petrosa,
e Scheno e Scolo, e il ricco di vette Eteone,
e Tespia e Graia e Micalesso spaziosa;
altri abitavano intorno ad Arma, a Ilisio, a Eritra;
avevano altri Eleone ed Ile e Peteone,
Ocalea e Medeone, borgo ben costruito,
Cope, Eútresi e Tisbe dalle molte colombe;
altri Coronea e Alíarto erbosa,
e altri avevan Platea, e abitavan Gli santo,
e avevano Ipotebe, borgo ben costruito,
e Onchesto sacra, recinto nobile di Poseidone;
altri avevano Arne ricca di grappoli, e Mídea
e Nisa divina e la lontana Antedone;
vennero di costoro cinquanta navi, in ognuna
centoventi giovani dei Beoti eran saliti.
    Ma quelli che Aspledone e Orcòmeno Minio abitavano,
di questi erano a capo Ascàlafo e Iàlmeno, figli d’Ares,
che nel palazzo d’Àttore Azeíde, al piano di sopra,
generò Astioche, vergine degna d’onore,
al forte Ares; ch’egli le giacque accanto furtivo.
Per loro trenta navi concave s’allineavano.
    E dei Focesi Schedío ed Epístrofo erano a capo,
figli d’Ifito magnanimo Naubolíde;
questi avevan Cipàrisso e Pito petrosa,
Crisa divina e Daulíde e Panopeo,
e ad Anemoria vivevano e a Iàmpoli,
e presso il fiume Cèfiso divino abitavano,
e avevano Lílaia, sulla sorgente del Cèfiso;
costoro quaranta navi nere seguivano,
e i capi ordinavan le file dei Focesi attivamente;
accanto ai Beoti, a destra, stavano armati.
    Dei Locri era a capo l’Oileo, il rapido Aiace,
meno grande, non tanto grande quanto l’Aiace Telamonio,
molto meno grande, piccolo anzi e con cotta di lino,
ma con l’asta vinceva tutti gli Elleni e gli Achei.
Questi abitavano Cino e Oponto e Callíaro,
e Bessa e Scarfe, e l’amabile Augea,
e Tarfe e Tronio, sulla corrente del Boagrio.
Costui quaranta navi nere seguivano,
dei Locri, che vivono in faccia alla sacra Eubea.
    Quelli che avevan l’Eubea, gli Abanti che spirano furia,
e Calcíde ed Eretria e Istíea ricca di grappoli,
e Cerinto marina e l’alta città di Dione,
e quelli che avevano Càristo, e abitavano Stira,
di questi era a capo Elefènore, rampollo d’Ares,
figlio di Calcodonte, magnanimo principe degli Abanti;
a lui obbedivan gli Abanti rapidi, chiomati alla nuca,
armati di lancia, bramosi coi lunghi frassini
di rompere la corazza intorno al petto ai nemici.
Costui quaranta navi nere seguivano.
    E quelli che avevano Atene, città ben costruita,
popolo del magnanimo Eretteo, che Atena un tempo
allevò, la figlia di Zeus – lo generò la terra feconda –
e pose in Atene, dentro il suo ricco tempio;
e lui qui con tori e agnelli propiziano
i giovani degli Ateniesi al tornare dell’anno:
di questi era a capo il figlio di Peteòo, Menesteo:
mai sulla terra nacque uomo simile
per ordinare cavalli e uomini armati di scudi.
Soltanto Nestore entrava in gara, poi ch’era più vecchio.
Costui cinquanta navi nere seguivano.
    Aiace da Salamina guidava dodici navi;
e li dispose ordinandoli dov’erano le falangi ateniesi.
    Quelli che avevano Argo e Tirinto murata,
Ermione e Asine sul golfo profondo,
Trezene, Eione, Epídauro piantata a vigneti,
e avevano Egina e Màsete, giovani degli Achei,
di questi era a capo Diomede, potente nel grido,
e Stènelo, caro figlio di Capaneo glorioso,
terzo Euríalo andava con essi, mortale pari agli dèi,
figlio di Mecisteo, del re Talaonide;
ma su tutti imperava Diomede, potente nel grido.
Costoro ottanta navi nere seguivano.
    Quelli che avevan Micene, città ben costruita,
e l’abbondante Corinto, e il ben costruito Cleone,
o che abitavano Ornea e l’amabile Aretirea,
e Sicione, là dove Adrasto prima regnò,
e quelli che Iperesía e l’alta Gonòessa
avevano e Pellene, e abitavano intorno ad Ègio,
e in tutto quanto l’Egialo, e intorno all’ampia Elíce,
cento navi di questi guidava il potente Agamennone,
figlio d’Atreo; con lui moltissime e nobili
schiere venivano; egli era vestito di bronzo abbagliante,
e andava superbo, tra tutti gli eroi primeggiava,
perché era il più forte, guidava moltissime schiere.
    Quelli che avevano Lacedèmone concava, avvallata,
e Fari e Sparta e Messe ricca di colombe,
e abitavano Brisea e l’amabile Augea,
che avevano Amicla ed Elo, borgo sulla riva del mare,
che avevano Laa e che abitavano Ètilo,
di questi guidava il fratello, Menelao potente nel grido,
sessanta navi; a parte stavano armati;
egli in mezzo moveva, fidando nel suo coraggio,
e li spingeva alla guerra; moltissimo ardeva in cuore
di vendicare d’Elena le ribellioni e i gemiti.
    E quelli che Pilo abitavano e l’amabile Arene,
e Trio, guado dell’Alfeo, ed Epi ben costruita,
e Ciparissento ed Anfigènia abitavano,
e Pteleo ed Elo e Dorio, là dove le Muse
fattesi avanti al tracio Tàmiri tolsero il canto,
mentre veniva da Ecalia, da Euríto Ecaleo,
e si fidava orgoglioso di vincere, anche se esse,
le Muse cantassero, figlie di Zeus egíoco!
Ma esse adirate lo resero cieco e il canto
divino gli tolsero, fecero sí che scordasse la cetra;
di questi era a capo il gerenio cavaliere Nestore.
Novanta concave navi egli metteva in linea.
    E quelli che avevan l’Arcadia, ai piedi dell’alto Cillene,
presso la tomba d’Epíto, dove gli uomini lottano corpo a corpo,
quelli che abitavano Fèneo e Orcòmeno ricca di pecore,
e Ripe e Stratíe ed Enispe ventosa,
e avevano Tegea e l’amabile Mantinea,
ed avevano Stínfalo e abitavano Parrasia,
di questi guidava il figlio d’Anceo, il potente Agapènore,
sessanta navi; e in ogni nave molti
eroi arcadi eran saliti, abili in guerra.
E donò loro, il sire di genti Agamennone,
le navi buoni scalmi, da andar sul cupo mare,
il figlio d’Atreo, ché quelli non sanno di cose marine.
    Quelli poi che abitavano Buprasio e l’Èlide divina,
fin là dove Irmíne e Mírsino lontana
e la rupe Olenia la chiudono e Alesio,
di questi i capi eran quattro, seguivano ognuno dieci
navi veloci, e molti Epei vi salirono.
Erano dunque a capo degli uni Anfímaco e Talpio,
uno figlio di Ctèato, l’altro d’Euríto, Attoridi;
degli altri erano capo il forte Diore Amarincíde,
degli ultimi Polísseno simile a un dio,
figliuolo d’Agàstene, signore Augeiade.
    Ma quelli di Dulichio e delle sacre Echinadi
isole che son di faccia all’Èlide di là dal mare,
di questi era a capo Mege, simile ad Ares,
Fileíde, che il cavaliere Fileo generò, caro a Zeus,
il quale un tempo emigrò a Dulichio, irato col padre.
Questo quaranta navi nere seguivano.
    Odisseo conduceva i Cefalleni magnanimi,
quelli che avevan Itaca e il Nèrito, sussurro di fronde:
e abitavano Crocílea e l’aspra Egílipa,
e avevan Zacinto e abitavano Samo,
e possedevan le coste e le rive di faccia abitavano;
di questi era a capo Odisseo, simile a Zeus per saggezza.
Andavan con esso dodici navi dai fianchi vermigli.
    Degli Etòli era a capo Tòante, figlio d’Andrèmone,
e quelli abitavano Pleurone ed Òleno e Pilene,
Calcíde in riva al mare e Calidone petrosa;
ché non vivevano più i figli d’Oineo magnanimo,
e neppur esso viveva più, era morto, il biondo Melèagro;
a lui dunque spettava regnare su tutti gli Etòli.
Quaranta navi lo seguivano.
    Sui Cretesi comandava Idomeneo buono con l’asta,
e quelli avevano Cnosso e Gòrtina cinta di mura,
Licto, Míleto e Lícasto bianca,
e Festo e Rítio, città ben popolate,
altri abitavano Creta dalle cento città;
su questi dunque regnava Idomeneo buono con l’asta
e Merione pari a Enialio massacratore.
Costoro ottanta navi nere seguivano.
    Tlepòlemo, il figlio d’Eracle nobile e grande,
guidava da Rodi nove navi di Rodii superbi,
i quali abitavano a Rodi, divisi in tre sedi,
Lindo e Iàliso e Càmiro bianca.
Su questi regnava Tlepòlemo buono con l’asta,
che Astiòchea generò alla possanza d’Eracle;
la portò via da Efira, via dal fiume Sellèento,
dopo che molte città di pupilli di Zeus ebbe atterrato.
Tlepòlemo, dunque, come crebbe nel solido palazzo,
ecco uccide lo zio del padre suo,
già vecchio ormai, Licimnio, rampollo d’Ares.
E presto costruì navi, e raccolto un esercito grande,
andò fuggendo sul mare; ché lo minacciavano gli altri
figliuoli e nipoti della possanza d’Eracle.
Ma a Rodi egli giunse errando, soffrendo dolori;
e qui in tre sedi si stanziarono, per tribù; e furono amati
da Zeus, che regna sui numi e sugli uomini:
a loro divina opulenza versava il Cronide.
    Nirèo pure guidava da Sime tre navi ben fatte,
Nirèo, figlio d’Aglaia e del sire Caropo,
Nirèo, l’uomo più bello che venne sotto Ilio,
fra tutti gli altri Danai, dopo il Pelide perfetto.
Debole egli era però; lo seguiva piccolo esercito.
    Quelli che avevano Nísiro e Cràpato e Caso
e Cos, città d’Eurípilo, e l’isole Calidne,
sopra questi regnavano Fídippo e Àntifo,
figli ambedue del re Tessalo, un Eraclide.
Essi mettevano in linea trenta concave navi.
    Ora dirò anche quelli che stavano in Argo Pelasga,
e quelli che Alo ed Alope, o che abitavan Trachine,
e che avevano Ftia, e l’Ellade belle donne,
che Mirmídoni erano detti ed Èlleni e Achei;
di costoro guidava cinquanta navi Achille.
Ma questi della guerra odiosa non si davan pensiero,
non v’era infatti chi li ordinasse in file;
ché tra le navi Achille divino piede veloce, sedeva,
irato per la giovane Briseide dai bei capelli,
che s’era presa a Lirnesso, dopo aver tanto sudato
nell’abbatter Lirnesso e le mura di Tebe;
e Minete abbatté, ed Epístrofo, lance robuste,
i figliuoli d’Eveno, del sire Selepíade;
a causa di lei sedeva irato; ma presto doveva levarsi!
    E quelli che avevan Fílache e Píraso fiorita,
recinto sacro di Demetra, e Itona madre di greggi,
e Antrona marina, e Pteleo letto d’erba,
su questi regnò Protesílao bellicoso,
sin che fu vivo, ma stava già allora sotto la terra nera;
di lui rimaneva a Fílache la sposa, graffiata in viso,
e un palazzo incompiuto; l’uccise un eroe dardano,
che dalla nave balzava, primissimo fra gli Achei.
Certo non erano senza capo, però rimpiangevano il primo:
li ordinava Podarche rampollo d’Ares,
figlio d’Ificlo ricco di pecore, Filachíde,
fratello germano di Protesílao magnanimo,
più giovane d’anni; l’altro era il primo ed era un eroe
più forte, Protesílao guerriero; così l’esercito
non mancava di guida, ma rimpiangeva il più forte.
Costui quaranta navi nere seguivano.
    Ma quelli che abitavano Fere, sulla palude Boibeide,
e Boibe e Glafire e Iaolco ben costruita,
di questi guidava il caro figlio d’Admeto undici navi,
Èumelo, che generò da Admeto una donna divina,
Alcesti, bellissima tra le figliuole di Pelia.
    E quelli che abitavano Metone e Taumacia,
e avevano Melíbea e l’aspra Olizone,
di questi guidava Filottete esperto dell’arco
sette navi; e cinquanta rematori in ognuna
salivano, esperti a combattere gagliardamente con l’arco.
Ma quello giaceva in un’isola, soffrendo violenti dolori,
in Lemno divina, dove lo lasciarono i figli degli Achei,
che spasimava per piaga maligna di serpe funesto.
Egli giaceva laggiù straziato, ma presto dovevano ricordarsi
gli Argivi, presso le navi, del sire Filottete.
Certo quelli non erano senza capo, ma rimpiangevano il primo,
li ordinava Mèdonte, il figlio bastardo d’Oileo,
che Rene generò da Oileo distruttore di rocche.
    Quelli che avevano Tricca e Itome dirupata,
e che avevano Ecalia, città d’Euríto Ecaleo,
su questi regnavano i due figliuoli d’Asclepio,
i buoni due guaritori, Podalirio e Macàone.
Essi mettevano in linea trenta concave navi.
    Quelli che avevano Ormenio e la sorgente Ipèrea,
che avevano Asterio e le cime bianche del Titano,
d’essi era capo Eurípilo, lo splendido figlio di Evèmone.
Quaranta navi nere lo seguivano.
    Quelli che avevano Àrgissa e abitavano Girtone,
Orte ed Elone, e la città d’Oloòssono bianca,
su questi regnava il forte guerriero Polipete,
figlio di Pirítoo, che Zeus immortale generò.
Lui da Pirítoo generò Ippodamia gloriosa,
il giorno che fece vendetta dei Centauri pelosi,
li cacciò dal Pelio, li spinse verso Etíci;
non da solo, con esso Leonteo rampollo d’Ares,
figlio dell’animoso Corono Ceneíde;
questi quaranta navi nere seguivano.
    Gunèo conduceva ventidue navi da Cifo,
e lo seguivano gli Enieni e i forti guerrieri Perebi,
quelli che intorno a Dodona inclemente si fecero case,
quelli che intorno all’amabile Titaresio coltivavano i campi,
che nel Peneo getta l’acque, belle correnti,
ma non si mischia con Peneo flutto d’argento,
gli scorre di sopra, a fior d’acqua, come olio,
perché è un braccio di Stige, l’acqua tremenda del giuramento.
    Dei Magneti era a capo Pròtoo, figliuolo di Tentredòne,
essi intorno al Peneo e al Pelio sussurro di fronde
abitavano, e li guidava Pròtoo veloce;
quaranta navi nere lo seguivano.
    Questi erano i capi e i guidatori dei Danai.
[…]

domenica 16 novembre 2014

Il poeta della settimana: Thomas



Andando avanti con la mia serie dei poeti della settimana mi accorgo che le scelte che faccio mi vengono naturali, quasi come se mi fosse impossibile farne altre.

A Dylan Thomas ci sono arrivato nel '74, attraverso Bob Dylan, che, nato Robert Zimmermann, aveva scelto il nome del poeta gallese come cognome d'arte.

Ho scelto una poesia del '35 perché è quella che fin dalla prima lettura mi aveva colpito di più. È chiara e al tempo stesso misteriosa. Ha la magia delle cose eterne, liberate dalle catene del tempo, come diceva Jarry. Tra cento, duecento, mille anni, sarà ancora leggibile come oggi, senza nessuno sforzo.

La poesia parla di guerra e di pace, ma parla soprattutto di morte e d'inganno e lo fa  con parole quasi messianiche. La trovo splendida.



La mano che firmò il trattato



La mano che firmò il trattato abbatté una città;
Cinque dita sovrane tassarono il respiro,
Radoppiarono il globo dei morti e dimezzarono un paese;
Quei cinque re misero a morte un re.

La mano possente conduce a una spalla sghimbescia,
Il calcio rattrappisce le giunture delle dita;
Una penna d’un’oca ha messo fine all’omicidio
Che ha messo fine ai negoziati.

La mano che firmò il trattato produsse una febbre.
E la penuria crebbe, e le locuste vennero;
Grande è la mano che ha dominio sull’uomo
Scarabocchiando un nome.

I cinque re contano i morti, ma la piaga
Incrostata non curano, la fronte non carezzano;
Una mano governa la pietà come governa i cieli;
Dalle mani non scorrono le lacrime.





The hand that signed the paper



The hand that signed the paper felled a city;
Five sovereign fingers taxed the breath,
Doubled the globe of dead and halved a country;
These five kings did a king to death.

The mighty hand leads to a sloping shoulder,
The fingers' joints are cramped with chalk;
A goose's quill has put an end to murder
That put an end to talk.

The hand that signed the treaty bred a fever,
And famine grew, and locusts came;
Great is the hand that holds dominion over
Man by a scribbled name.

The five kings count the dead but do not soften
The crusted wound nor stroke the brow;
A hand rules pity as a hand rules heaven;
Hands have no tears to flow.

domenica 9 novembre 2014

Il poeta della settimana: Al-Khayyaām


Chi può citare i nome di tre letterati musulmani alzi la mano.
Vedo pochissime mani.
Eppure di questi tempi, quando la semplice parola musulmano tende a suscitare amalgami di ogni genere e tipo, non sarebbe male conoscere un po' di più quel mondo.
Omar Al-Khayyaām (o 'Umar Ḫayyam), al secolo Ghiyāth ad-Dīn Abu'l-Fatḥ ʿUmar ibn Ibrāhīm al-Khayyām Nīshāpūrī, nato il 18 maggio del 1048, è stato un poeta, matematico, filosofo astronomo e mistico sufi, originario del Khorasan persiano, regione orientale del Paese, il cui nome significa dove ha origine il sole
Le poesie di Khayyaām sono state tradotte in inglese verso la metà dell'800 e quella traduzione non solo fece scoprire all'Occidente un grande poeta, ma ne permise anche la riscoperta in Persia, dove era stato più o meno dimenticato per secoli.
Ha scritto un migliaio di rubāʿiyyāt, parola persiana tradotta solitamente con quartine, ma che in realtà ha a che vedere con la struttura metrica dei versi, riferiti alle quattro parti del metro arabo definito ʿarūḍ.
Il tema principale dei suoi scritti è il vino, ma attraverso il vino è di vita e di morte che Khayyām ci parla, di amore, di amicizia e di disprezzo verso l'intransigenza bigotta.
Le quartine le ho tenute a lungo accanto al letto, leggendomene qualcuna di tanto in tanto, come si va, appunto, a bersi un buon bicchiere di vino, per il puro piacere. Anche se molto diverso da Bashō, poeta giapponese al quale ho consacrato un post qualche settimana fa, Khayyām me lo ricorda per quel suo uso di testi brevi e quasi impressionisti. Ma mentre Bashō sembra sempre etereo e contemplativo, Khayyām è molto più decisamente terreno e concreto. Khayyām era in realtà un poeta dilettante, e riservava i suoi scritti agli amici. A lui si devono un'importante Spiegazione delle difficoltà nei postulati degli Elementi di Euclide, un metodo per la soluzione delle funzioni cubiche, il miglioramento del calendario persiano e vari testi di filosofia matematica. Secondo alcune fonti, pare anche che Khayyām fosse un convinto eliocentrista, cinque secoli prima di Copernico (e, detto per inciso, tredici secoli dopo Aristarco). 
Approfitto di questo post per segnalare qualche altro testo degno di nota.
Prima di tutto le Shahnameh, o Libro dei re, del persiano Ferdowsi, che precede Khayyām di pochi decenni. È la grande epopea persiana, che inizia con la creazione del mondo e arriva fino all'invasione araba del VII secolo. Una meraviglia, di cui ho comprato un esemplare in inglese in occasione di un viaggio a Teheran, ma di cui non trovo traccia in versione italiana.
Saltando completamente di palo in frasca e passando dal mondo persiano a quello arabo, un libro di cui consiglio vivamente la lettura è La casa della saggezza, di Jim Al-Khalili, fisico nato a Baghdad da padre iracheno e madre britannica, nonché ex-presidente della British Humanist Association. Il libro è una bellissima e interessantissima passeggiata attraverso la scienza medievale musulmana, sia araba che persiana, all'epoca in cui Baghdad era non solo la città più grande del mondo con il suo milione di abitanti, ma del mondo era anche il centro scientifico.
C'è poi sempre il classico Le crociate viste dagli arabi, del libanese Amin Maalouf, che mostra quanto agli occhi del Medio Oriente i crociati cristiani apparissero come barbari crudeli e fanatici, totalmente privi di scrupoli e di senso della dignità. L'ho riletto un paio d'anni fa (il libro è dell'83) e l'ho trovato assolutamente degno di nota.
Tutte queste sono solo gocce nell'oceano del sapere arabo-musulmano nel quale avremmo tutti grande interesse a farci una nuotatina di tanto in tanto. 
Non resisto alla tentazione di rievocare il giorno in cui, dopo avere visitato Persepoli, a una cinquantina di chilometri da Shiraz, andai al sito archeologico di Naqsh-e Rostam. Lì, scavate in una parete rocciosa, avevo sotto gli occhi le tombe di Dario, Serse e Artaserse. Vaghi ricordi scolastici, nomi di grandi re dei quali so poco o nulla, ma che hanno segnato la storia del mondo quanto e forse più di un Ottaviano Augusto o di un Carlomagno. Quel giorno mi è sembrato di toccare con mano l'assoluto eurocentrismo del poco che so e i limiti che quella mia cultura mi impone. Per qualche istante almeno mi sono sentito invadere da un'ondata di curiosità e appena tornato a Teheran, tre giorni dopo, ho cercato una traduzione inglese dello Shanameh, da cui ho poi tratto uno spettacolo.
Non si può sapere tutto ed è anche giusto nutrirsi della propria cultura prima che delle altre. Ma più il mondo diventa policentrico e interdipendente, più è importante andare a vedere altrove, non perché altrove sia meglio, ma perché è andando lì che si possono scoprire modi di pensare profondamente diversi e altrettanto affascinanti dei nostri.
E adesso alcune quartine. Una sola precisazione: la numerazione delle quartine sembra diversa da una traduzione all'altra. Per esempio la prima quartina che trascrivo porta il numero 41 ma non è la stessa di quella che porta lo stesso numero in un'altra traduzione e che incomincia con Poiché le cose non devono accadere secondo i nostri desideri.


Rubaiyyat 41
Il vino è rubino fuso, e la bottiglia è la miniera,
la coppa è il corpo, e il suo liquore l'anima.
Quella coppa di cristallo, che ride di vino,
è una lacrima in cui si cela il sangue del cuore.
 

Rubaiyyat 42
Io bevo il vino, e i miei critici a dritta e a manca
dicono: «Non lo bere, ché è nemico della fede...».
Or che ho appreso che è nemico della fede,
per Dio, bevo il sangue del nemico, che è ben lecito bere.
 

Rubaiyyat 46
In ogni piana ove è un giardino di tulipani,
quei tulipani sbocciano dal sangue di un re
Ogni gambo di violetta che spunta dal verziere
è una mano che recinse (un giorno) il collo di un amico.
 

Rubaiyyat 47
Abbi senno, ché il Tempo è fonte di torbidi.
Non sedertene sicuro, ché la spada del Destino è acuta.
Se il Tempo ti pone in bocca una pasta di mandorle,
attento, non inghiottire, ché è intrisa di veleno!
 

Rubaiyyat 52
Un sorso di vino è migliore del regno di Kavùs,
del trono di Qobàd, e del dominio di Tus.
Ogni gemito che caccia al mattino un bevitore libertino
è migliore del gemito degli ipocriti asceti.
 

Rubaiyyat 54
Il dolore del mondo è un veleno, e il vino è il tuo antidoto.
Tu bevi l'antidoto, e non hai da temere del veleno
Con i bei giovani di primo pelo bevi il vino in perpetuo sul verde,
prima che il verde spunti sotto terra da te.
 

Rubaiyyat 57
Ogni erba verde spuntata in riva a un ruscello
la diresti sbocciata dal labbro d'una angelica creatura.
Non poggiare senza riguardo il piede sull'erba,
ché quest'erba è nata dalla polvere d'un Volto di luna.
 

Rubaiyyat 58
Non avendo noi sottomano verità e certezza,
non si può stare la vita intera in una dubbia speranza.
Su, non deponiamo di mano il bicchiere;
nell'ignoranza in cui siamo, che differenza c'è tra il lucido e l'ebbro?
 

Rubaiyyat 64
O tu, la cui guancia è ricalcata sulla rosa,
il cui volto è fuso sul modello delle bellezze della Cina!
O tu, il cui languido sguardo dà scacco al re di Babele
senza cavallo e torre, alfiere e pedina e regina!
 

Rubaiyyat 65
Quando la vita se ne va, che differenza c'è tra Baghdad e Balkh?
Quando la coppa è ricolma, che fa se dolce o amaro è il suo contenuto?
Bevi il vino, ché dopo di me e di te, più volte questa luna
passerà dall'ultimo al primo quarto, e dal primo all'ultimo.
 

Rubaiyyat 67
Questo intelletto che incede per la via della felicità
cento volte al giorno ti dice così:
cogli questo tuo tempo d'un attimo, giacché non sei
quell'erba fresca che falciano e poi torna a spuntare.
 

Rubaiyyat 68
Coloro che son caduti prigionieri del senno e del discernimento,
si sono distrutti nell'affanno dell'essere e del non-essere.
Va', ignorante che sei, e preferisci il succo della vite,
ché quegli ignoranti han prima di sera finita la loro giornata.
 

Rubaiyyat 69
Il mio venire (alla vita) non ha dato alcun frutto alla Ruota celeste
né la sua bellezza e dignità si è accresciuta per la mia dipartita.
Da nessuno ancora, le mie due orecchie hanno udito
che scopo abbia questa mia venuta e questa mia dipartita.
 

Rubaiyyat 70
Nella via dell'Amore bisogna essere puri.
Nell'artiglio della Morte bisogna morire.
Coppiere dal bel volto non te ne stare inoperoso,
versa il tuo liquore, che dovremo (un giorno) diventare terra!
 

Rubaiyyat 71
Ora che della gioia non è rimasto che il nome,
che nessun vecchio amico é rimasto, fuor del vino nuovo
Non ritrarre la mano dell'allegria dalla coppa del vino
oggi che in mano non ti è rimasto che il bicchiere.
 

Rubaiyyat 77
Non sono io uomo da aver paura del non-essere,
quella metà mi piace ancora più di questa.
Ho un'anima, che è un oggetto prestato entro una gabbia.
La riconsegnerò quando venga il momento di renderla.
 

Rubaiyyat 78
Questa carovana della vita passa mirabilmente.
Tu, cogli un istante che trascorra in letizia.
Coppiere, che stai a crucciarti per il domani degli amici?
Da' qui la coppa del vino, ché la notte trascorre.
 

Rubaiyyat 80
Benché il vino abbia lacerato il mio velo,
finché ho vita non mi separerò da quel liquore.
Mi stupiscono i venditori di vino, giacché essi
cosa mai potranno comprare di meglio di quel che vendono?

domenica 2 novembre 2014

Il poeta della settimana: Catullo


Una delle gioie di chi, come me, a scuola ci è andato poco è scoprire per tutto il corso della vita autori che altri hanno subito in classe come sgradevoli obblighi. Il solo libro che posseggo di poesie di Catullo l'ho comprato a 48 anni. Ma quando mi sono sbarazzato dei nove decimi dei libri che avevo in casa, tenendomi solo quelli che non ce la facevo proprio a dar via, non ho esitato un secondo, l'ho tenuto. E ho fatto bene.

Duemila anni dopo, leggere di tanto in tanto un po' di Catullo è cosa che favorisce l'equilibrio mentale. Non sarà il più grande poeta della storia del mondo, ma è così profondamente sano, specialmente nelle sue incazzature, che leggerlo è come togliersi un pensiero, una spina dal piede, una preoccupazione.

Sì, va bene, "Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. / Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento", ma vuoi mettere con "(...) il tuo culo è più lindo d’una salierina di vetro, / e non caca dieci volte in un anno; e quel che fai  è più duro d’una fava secca e dei ciottoli di fiume; / tanto che se lo sfregassi e stropicciassi tra le mani, / non potresti sporcarti neanche un sol dito"?

Oggi ho scelto La taverna dei puttanieri, che i più eruditi tra i miei lettori non mancheranno di godersi in lingua originale a fondo pagina.



La taverna dei puttanieri

Voi, bestie che frequentate quell’immonda taverna,
nove colonne dopo il tempio di Càstore e Pollùce,
pensate di averlo solo voi il cazzo, che solo a voi,
qualunque fichetta si presenti, sia concesso
scoparverla mentre gli altri son tutti cornuti?
O forse, dal momento che sedete in cento o duecento
tutti in fila come deficienti, credete che non sarei capace
di ficcarvelo in bocca a tutti e duecento quanti siete?
E allora sappiatelo: sul muro fuori della taverna
scriverò che siete tutti dei gran cazzoni.
La mia donna, fuggita dalle mie braccia,
lei, amata quanto nessuna mai sarà amata,
in nome della quale ho combattuto così grandi battaglie,
siede lì, tra voi. Ve la sbattete a turno, quasi che foste onesti
e rispettabili, ma in realtà, ed è questa la cosa atroce,
siete un branco di mezze seghe fallite e puttanieri da strada;
e tu sei il primo, Ignazio, fra tutti quei capelloni,
nato tra gl'innumerevoli conigli della Celtiberia,
che credi d’esser bello nascosto dalla barba incolta
e ti sfreghi i denti sciacquandoli con l'urina.



Salax taberna vosque contubernales,
a pilleatis nona fratribus pila,
solis putatis esse mentulas vobis,
solis licere, quidquid est puellarum,
confutuere et putare ceteros hircos?
an, continenter quod sedetis insulsi
centum an ducenti, non putatis ausurum
me una ducentos irrumare sessores?
atqui putate: namque totius vobis
frontem tabernae sopionibus scribam.
puella nam mi, quae meo sinu fugit,
amata tantum quantum amabitur nulla,
pro qua mihi sunt magna bella pugnata,
consedit istic. Hanc boni beatique
omnes amatis, et quidem, quod indignum est,
omnes pusilli et semitarii moechi;
tu praeter omnes une de capillatis,
cuniculosae Celtiberiae fili,
Egnati, opaca quem bonum facit barba
et dens Hibera defricatus urina.