domenica 26 ottobre 2014

Il poeta della settimana: Ginsberg


Attenzione: la poesia che segue è da maneggiare con prudenza. È dinamite, è nitroglicerina, ma soprattutto è anfetamina intrisa di sperma.

Allen Ginsberg è probabilmente stato al ventesimo secolo ciò che Walt Whitman era stato all'800. In un secolo gli Stati Uniti erano cambiati profondamente. Non c'era più spazio per un cantore della vita e della Libertà con la L maiuscola. Largo a un altro genio, molto più preoccupato dallo scavare nei putridi meandri di un'America in piena dissoluzione che nell'intonare inni alla Natura.

Sono gli anni '50. Bombe atomiche sono esplose su Hiroshima e Nagasaki. Da un momento all'altro un mondo diviso in blocchi sembra poter annegare in una terza guerra mondiale. Per la prima volta l'olocausto generale è possibile.

Miles Davis, Charlie Parker, John Coltrane sono gli idoli della beat generation, come i Beatles e Bob Dylan lo saranno di quella degli hippies. Jack Kerouac ha già scritto Sulla strada, che sarà pubblicato solo nel '57, ma che chi gli sta vicino ha già letto. 
Quando, un anno prima, Ginsberg pubblica la sua poesia più famosa, Howl, Urlo, probabilmente immagina che correrà qualche guaio. E infatti i guai arrivano. Il 25 marzo del '57 la dogana confisca 520 copie che arrivano negli Stati Uniti da una casa editrice di Londra. Lawrence Ferlinghetti è arrestato per aver pubblicato il libro. Alla fine Ferlinghetti e altri coimputati verranno dichiarati innocenti, grazie a numerose testimonianze di letterati che considerano la poesia un capolavoro.

Quando, ancora adolescente, mi sono ritrovato a leggere quel testo rabbioso, denso, osceno, criptico e magicamente spirituale, io di tutto questo non ne sapevo nulla. Ma ho avuto immediatamente l'impressione di scoprire l'esistenza di orizzonti insperati. 
Diciamo la verità, di questa strana poesia non capivo granché; ma il ritmo, le parole e le immagini mi travolgevano come un fiume in piena, dando ai miei brufoli di acne la speranza di potersi annegare in qualche caldo e misterioso oceano al di là delle montagne.

Ancora oggi, rileggendo Howl, sono sbigottito dalla veemenza e dalla musicalità del testo. Questa poesia è ormai considerata come uno dei capolavori assoluti della letteratura nordamericana, ma non c'è niente da fare, conserva tutta la sua dirompente intrattabilità.

Non so cos'altro dire. Amo questa poesia in modo viscerale, anche perché mi pare impossibile amarla altrimenti. Se non l'hai mai letta, ti consiglio di buttartici dentro e di lasciarti andare, di lasciarti portare via anche se non capisci, ché tanto potrai sempre rileggerla con calma più tardi. Se in casa hai Kind of blue di Miles Davis, mettilo come fondo sonoro. È stato registrato due anni dopo la pubblicazione di Howl, è figlio della stessa America.

Howl è diviso in tre parti. Io qui pubblico solo la prima, tanto per darti voglia di andarti a cercare le altre due. Ho preso un paio di traduzioni su internet e le ho rimodellate a mio piacimento là dove mi sembravano approssimative. Ovviamente a fondo pagina metto il testo originale.
Un consiglio: leggi Ginsberg a voce alta, funziona meglio.



URLO

Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude,

trascinarsi nei quartieri negri all'alba in cerca di droga rabbiosa,
alternativi dalle teste d'angelo brucianti per l'antica celeste connessione con la dinamo stellata nel meccanismo della notte,

che in povertà e stracci e occhi vuoti sedevano fumando nell'oscurità soprannaturale di soffitte con acqua fredda galleggianti tra le cime delle città contemplando il jazz,

che si denudavano i cervelli al Cielo sotto l'Elevated e vedevano angeli maomettani barcollare illuminati su tetti condominiali,

che attraversavano università con freddi occhi splendenti allucinando l'Arkansas e la tragedia Blakiana fra gli studiosi della guerra,

che venivano espulsi dalle accademie per pazzia & pubblicazione di odi oscene sulle finestre del teschio,

che si annidavano in mutande dentro stanze non sbarbate, bruciando i loro soldi in cestini dei rifiuti e ascoltando il Terrore attraverso il muro,

che venivano perquisiti nelle loro barbe pubiche tornando da Laredo con una cintura di marijuana per New York,

che mangiavano fuoco in alberghi riverniciati o bevevano trementina nella Paradise Alley, morte, o notte dopo notte si purgatorizzavano i busti

con sogni, con droghe, con incubi a occhi aperti, alcol e cazzo e palle infinite,

incomparabili vicoli ciechi di nuvola vibrante e fulmine nella mente scagliata verso i poli di Canada & Paterson, che illumina tutto il mondo immobile del Tempo in mezzo,

solidità al Peyote di saloni, albe cimiteriali di alberi verdi da retro cortile, ubriachezza di vino sui tetti, borghi commerciali di giretto da fumati, semaforo lampeggiante al neon, vibrazioni di sole e luna e alberi nelle ruggenti foschie invernali di Brooklyn, urla fra pattumiere e luce mentale di re gentile,

che si incatenavano a metropolitane per l'interminabile corsa da Battery al santo Bronx sotto simpamina finché il rumore di ruote e bambini li faceva scendere tremanti con la bocca convulsa e abbattuti il cervello inaridito svuotati di splendore nella sconfortante luce di Zoo,

che annegavano tutta la notte nella luce sottomarina di Blickford's emergevano e sedevano per un pomeriggio di birra svaporata in un desolato Fugazzi's, ascoltando il frastuono d'inferno dal jukebox a idrogeno,

che parlavano senza interruzione settanta ore da parco a casa a bar a Bellevue a museo al Ponte di Brooklin,

battaglione disperso di conversazionalisti platonici che saltavano fuori da scalinate di uscite di sicurezza da davanzali dall'Empire State dalla luna,

farfugliando strillando vomitando sussurrando fatti e ricordi e aneddoti e pugni nell'occhio e traumi di ospedali e carceri e guerre,

interi intelletti rigurgitati in un richiamo totale per sette giorni e notti con occhi brillanti, carne per la Sinagoga buttata sul pavimento,

che svanivano nel nulla Zen New Jersey lasciando una scia di ambigue cartoline del municipio di Atlantic City,

soffrendo calori orientali e scricchiolamenti di ossa tangerini e emicranie cinesi durante astinenze da droga in una squallida stanza mobiliata di Newark,

che giravano e giravano a mezzanotte nello spiazzo della ferrovia domandandosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati,

che accendevano sigarette in carri merci carri merci carri merci arrancanti nella neve verso fattorie solitarie in notti da nonno,

che studiavano Plotino Poe San Giovanni della Croce telepatia e cabala bebop perche il cosmo vibrava istintivamente ai loro piedi in Kansas,

che si aggiravano solitari per le strade dell'Idaho cercando angeli indiani visionari che fossero angeli indiani visionari,

che pensavano di essere solo pazzi quando Baltimora risplendeva in estasi soprannaturale,

che saltavano in limousine con il cinese dell'Oklahoma ispirati dalla pioggia invernale di semaforo di paesino a mezzanotte,

che si aggiravano affamati e soli per Houston cercando jazz o sesso o minestra, e seguivano il  brillante spagnolo per chiacchierare di America e di Eternità, un'impresa disperata, e così si imbarcavano per l'Africa,

che scomparivano nei vulcani del Messico lasciandosi dietro nient'altro che l'ombra dei jeans e la lava e cenere di poesia sparpagliata nel caminetto Chicago,

che riapparivano sulla West Coast investigando sull'FBI in barbe e pantaloncini e grandi occhi pacifisti sexy nella loro pelle scura distribuendo volantini incomprensibili,

che si bucavano le braccia con le sigarette per protestare contro la nebbia di tabacco narcotico del Capitalismo,

che distribuivano volantini Supercomunisti a Union Square piangendo e spogliandosi mentre le sirene di Los Alamos li zittivano col loro grido, e zittivano Wall, e anche il ferry di Staten Island gridava,

che crollavano piangendo in palestre bianche nudi e tremanti di fronte al meccanismo di altri scheletri,

che mordevano poliziotti sul collo e gridavano di gioia in macchine della polizia per non aver commesso alcun crimine salvo la propria pederastia in selvaggia ebollizione e intossicazione,

che urlavano in ginocchio nella metropolitana e venivano trascinati via dal tetto agitando genitali e manoscritti,

che si lasciavano inculare da motociclisti santi, e gridavano dalla gioia,

che poi scambiavano pompini con quei serafini umani, i marinai, carezze di amore atlantico e caraibico,

che scopavano la mattina la sera in roseti e nell'erba di parchi pubblici e cimiteri spargendo il loro seme liberamente per chiunque volesse venire,

che avevano interminabili singhiozzi provando a ridacchiare ma finivano col gemere dietro un separè di un bagno turco quando l'angelo biondo e nudo veniva a infilzarli con la spada,

che perdevano i loro giovani amanti per le tre vecchie streghe del destino la strega guercia del dollaro eterosessuale la strega guercia che ammicca dall'utero e la strega guercia che non fa altro che starsene tutto il giorno piantata sul culo a tagliare i fili d'oro intellettuali del telaio dell'artigiano,

che copulavano estatici e insaziabili con una bottiglia di birra un fidanzatino un pacchetto di sigarette una candela e cadevano giù dal letto, e continuavano sul pavimento e nel soggiorno e finivano collassati contro il muro con una visione di figa suprema perfetta e sperma eludendo l'ultima sborrata di coscienza,

che addolcivano le fighe di un milione di ragazze tremanti al tramonto, e avevano gli occhi rossi al mattina ma erano preparati ad addolcire la figa dell'alba, chiappe balenanti nei fienili e nude al lago,

che andavano a puttane in Colorado in una miriade di auto civette rubate, N.C., eroe segreto di questi versi, mandrillo e Adone di Denver — gioia alla memoria delle sue innumerevoli trombate di ragazze in parcheggi vuoti e retri di tavole calde, su sedili traballanti di cinema, su cime di montagne in grotte o con cameriere ossute in strade familiari sollevando sottane solitarie e specialmente solipsismi segreti di cessi di stazioni di servizio e pure in vicoli attorno a casa,

che sfumavano in vasti film sordidi, si spostavano nei sogni, si svegliavano su un'improvvisa Manhattan, e si tiravano fuori da sottoscala intossicati di Tokai senza cuore e orrori di sogni di ferro da Terza Strada e vagavano verso uffici di disoccupazione,

che camminavano tutta la notte con le scarpe piene di sangue sulle banchine di neve aspettando che una porta dell'East River si aprisse su una stanza piena di vapore e oppio,

che creavano grandi drammi suicidi in appartamenti a picco sull'Hudson sotto il riflettore blu da coprifuoco della luna e le loro teste saranno incoronate d'alloro nell'oblio,

che mangiavano stufato d'agnello dell'immaginazione o digerivano granchi sul fondo fangoso dei fiumi di Bowery,

che piangevano alla romanza delle strade con i loro carrelli pieni di cipolle e cattiva musica,

che sedevano dentro casse respirando nell'oscurità sotto il ponte, e si alzavano per costruire clavicembali nelle loro stanze,

che tossivano al sesto piano di Harlem incoronati di fiamme sotto il cielo tubercoloso circondati da cassette d'arance di teologia,

che scarabocchiavano tutta la notte in un rock and roll su sublimi incantesimi che nel mattino giallo erano strofe di spazzatura,

che cucinavano animali fradici polmoni cuore zampe coda borsc e tortillas sognando il puro regno vegetale,

che si infilavano sotto camion della carne in cerca di un uovo,

che lanciavano gli orologi giù dal tetto per esprimere il proprio voto per un Eternità al di fuori del Tempo, e le sveglie gli caddevano sulla testa ogni giorno per il decennio successivo,

che si tagliavano i polsi per tre volte di fila senza successo, rinunciavano ed erano costretti ad aprire negozi di antiquariato dove credevano di invecchiare e piangevano,

che venivano bruciati vivi nei loro innocenti completi di flanella su Madison Avenue fra esplosioni di versi plumbei e il fracasso corazzato dei reggimenti della moda e gli strilli alla nitroglicerina delle checche della pubblicità e il gas tossico di sinistri redattori intelligenti, o venivano investiti dai taxi ubriachi della Realtà Assoluta,

che si buttavano giù dal Ponte di Brooklyn questo è successo veramente e se ne andavano via ignoti e dimenticati nella foschia spettrale della zuppa di vicoli e di camion dei pompieri di Chinatown, nemmeno una birra gratis,

che cantavano dalle finestre disperati, cadevano dal finestrino della metropolitana, si buttavano nel lurido Passaic, scavalcavano negri, gridavano per tutta la strada, danzavano su bicchieri di vino rotti a piedi scalzi frantumavano dischi fonografici di jazz tedesco dei nostalgici anni '30 europei finivano il whisky e vomitavano rantolando nel maledetto cesso, gemiti nelle orecchie e l'esplosione di colossali sirene,

che sfrecciavano sulle autostrade del passato viaggiando verso la fuoriserie-Golgota l'uno dell'altro verso la solitudine di prigione verso la veglia o incarnazione jazz di Birmingham,

che guidavano attraverso il Paese settantadue ore per scoprire se io avevo avuto una visione o tu avevi avuto una visione o lui aveva avuto una visione per scoprire l'Eternità,

che andavano a Denver, che morivano a Denver, che tornavano a Denver & aspettavano invano, che vegliavano a Denver e meditavano da soli a Denver infine se ne andavano per scoprire il Tempo, e adesso a Denver mancano i suoi eroi,

che cadevano in ginocchio in cattedrali senza speranza pregando per la salvezza dell'altro e luce e seni, finché l'anima si illuminava i capelli per un istante,

che si sfondavano il cervello in prigione aspettando criminali impossibili con teste d'oro e il fascino della realtà nei cuori che cantavano dolci blues ad Alcatraz,

che si ritiravano in Messico per coltivare un vizio, o sulle Montagne Rocciose per intenerire Budda o a Tangeri per i ragazzini o o alla Southern Pacific per la locomotiva nera o a Harvard o a Narciso o a Woodlawn alle orge o alla tomba,

che esigevano test d'infermità mentale accusando la radio di ipnotismo e restavano con la loro pazzia e le loro mani e la giuria incerta,

che al CCNY lanciavano insalata di patate ai conferenzieri sul Dadaismo e poi si presentavano sui gradini di granito del manicomio con teste rasate e discorsi arlecchineschi di suicidio, pretendendo un' immediata lobotomia,

e che ricevevano invece il vuoto solido dell'insulina metrazolo elettricità idroterapia psicoterapia terapia occupazionale ping-pong e amnesia,

che per protesta priva di umorismo capovolgevano simbolicamente un unico tavolo da ping-pong, riposando brevemente in catatonia,

ritornando anni dopo veramente calvi a parte una parrucca di sangue, e lacrime e dita, al destino visibile da pazzo delle corsie delle città manicomio dell'Est,

fetidi corridoi del Pilgrim State, di Rockland e di Greystone, bisticciando con gli echi dell'anima, ballando il rock and roll nella solitudine-panca dolmen-impero dell'amore a mezzanotte, sogno di vita un incubo, corpi mutati in pietra pesanti come la luna,
con mamma finalmente ***, e l'ultimo fantastico libro scaraventato dalla finestra, e l'ultima porta chiusa alle 4 del mattino e l'ultimo telefono sbattuto contro il muro per risposta e l'ultima stanza arredata svuotata fino all'ultimo mobile mentale, una rosa gialla di carta arrotolata su una gruccia di fil di ferro nell'armadio, e persino quella immaginaria, niente altro che uno speranzoso pezzettino di allucinazione

ah, Carl, finché non sei al sicuro neanch'io sono al sicuro, e ora sei proprio nel completo brodo animale del tempo

e chi dunque correva per le strade ghiacciate ossessionato da un improvviso balenio dell'alchimia dell'uso dell'ellisse il catalogo il metro e i piani vibranti,

che sognavano e facevano abissi umanizzati in Tempo & Spazio grazie a immagini giustapposte, e intrappolavano l'arcangelo dell'anima tra due immagini visive e univano i verbi elementali e mettevano insieme il nome e l'insorgere della coscienza saltando alla sensazione di Pater Omnipotens Aeterni Deus

per ricreare la sintassi e la misura della povera prosa umana e fermarcisi di fronte muti e intelligenti e tremanti di vergogna, respinti ma confessando l'anima per adeguarsi al ritmo del pensiero nella sua testa nuda e infinita,

il barbone matto e angelo battuto nel Tempo, sconosciuto, eppure mettendo giù qui quanto potrebbe rimanere da dire nel tempo dopo la morte,

e si alzavano reincarnati nei panni spettrali del jazz all'ombra della tromba d'oro della banda e soffiavano la sofferenza d'amore della nuda mente dell'America in un grido di sassofono eli eli lamma lamma sabachtani che faceva tremare le città fino all'ultima radio

con il cuore assoluto della poesia della vita macellato dai loro stessi corpi buono da mangiare per mille anni.



HOWL

I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked,

dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix,

angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly connection to the starry dynamo in the machinery of night,

who poverty and tatters and hollow-eyed and high sat up smoking in the supernatural darkness of cold-water flats floating across the tops of cities contemplating jazz,

who bared their brains to Heaven under the El and saw Mohammedan angels staggering on tenement roofs illuminated,

who passed through universities with radiant cool eyes hallucinating Arkansas and Blake-light tragedy among the scholars of war,

who were expelled from the academies for crazy & publishing obscene odes on the windows of the skull,

who cowered in unshaven rooms in underwear, burning their money in wastebaskets and listening to the Terror through the wall,

who got busted in their pubic beards returning through Laredo with a belt of marijuana for New York,

who ate fire in paint hotels or drank turpentine in Paradise Alley, death, or purgatoried their torsos night after night

with dreams, with drugs, with waking nightmares, alcohol and cock and endless balls,

incomparable blind streets of shuddering cloud and lightning in the mind leaping toward poles of Canada & Paterson, illuminating all the motionless world of Time between,

Peyote solidities of halls, backyard green tree cemetery dawns, wine drunkenness over the rooftops, storefront boroughs of teahead joyride neon blinking traffic light, sun and moon and tree vibrations in the roaring winter dusks of Brooklyn, ashcan rantings and kind king light of mind,

who chained themselves to subways for the endless ride from Battery to holy Bronx on benzedrine until the noise of wheels and children brought them down shuddering mouth-wracked and battered bleak of brain all drained of brilliance in the drear light of Zoo,

who sank all night in submarine light of Bickford’s floated out and sat through the stale beer afternoon in desolate Fugazzi’s, listening to the crack of doom on the hydrogen jukebox,

who talked continuously seventy hours from park to pad to bar to Bellevue to museum to the Brooklyn Bridge,

a lost battalion of platonic conversationalists jumping down the stoops off fire escapes off windowsills off Empire State out of the moon,

yacketayakking screaming vomiting whispering facts and memories and anecdotes and eyeball kicks and shocks of hospitals and jails and wars,

whole intellects disgorged in total recall for seven days and nights with brilliant eyes, meat for the Synagogue cast on the pavement,

who vanished into nowhere Zen New Jersey leaving a trail of ambiguous picture postcards of Atlantic City Hall,

suffering Eastern sweats and Tangerian bone-grindings and migraines of China under junk-withdrawal in Newark’s bleak furnished room,   

who wandered around and around at midnight in the railroad yard wondering where to go, and went, leaving no broken hearts,

who lit cigarettes in boxcars boxcars boxcars racketing through snow toward lonesome farms in grandfather night,

who studied Plotinus Poe St. John of the Cross telepathy and bop kabbalah because the cosmos instinctively vibrated at their feet in Kansas,

who loned it through the streets of Idaho seeking visionary indian angels who were visionary indian angels,

who thought they were only mad when Baltimore gleamed in supernatural ecstasy,

who jumped in limousines with the Chinaman of Oklahoma on the impulse of winter midnight streetlight smalltown rain,

who lounged hungry and lonesome through Houston seeking jazz or sex or soup, and followed the brilliant Spaniard to converse about America and Eternity, a hopeless task, and so took ship to Africa,

who disappeared into the volcanoes of Mexico leaving behind nothing but the shadow of dungarees and the lava and ash of poetry scattered in fireplace Chicago,

who reappeared on the West Coast investigating the FBI in beards and shorts with big pacifist eyes sexy in their dark skin passing out incomprehensible leaflets,

who burned cigarette holes in their arms protesting the narcotic tobacco haze of Capitalism,

who distributed Supercommunist pamphlets in Union Square weeping and undressing while the sirens of Los Alamos wailed them down, and wailed down Wall, and the Staten Island ferry also wailed,

who broke down crying in white gymnasiums naked and trembling before the machinery of other skeletons,

who bit detectives in the neck and shrieked with delight in policecars for committing no crime but their own wild cooking pederasty and intoxication,

who howled on their knees in the subway and were dragged off the roof waving genitals and manuscripts,

who let themselves be fucked in the ass by saintly motorcyclists, and screamed with joy,

who blew and were blown by those human seraphim, the sailors, caresses of Atlantic and Caribbean love,

who balled in the morning in the evenings in rosegardens and the grass of public parks and cemeteries scattering their semen freely to whomever come who may,

who hiccuped endlessly trying to giggle but wound up with a sob behind a partition in a Turkish Bath when the blond & naked angel came to pierce them with a sword,

who lost their loveboys to the three old shrews of fate the one eyed shrew of the heterosexual dollar the one eyed shrew that winks out of the womb and the one eyed shrew that does nothing but sit on her ass and snip the intellectual golden threads of the craftsman’s loom,

who copulated ecstatic and insatiate with a bottle of beer a sweetheart a package of cigarettes a candle and fell off the bed, and continued along the floor and down the hall and ended fainting on the wall with a vision of ultimate cunt and come eluding the last gyzym of consciousness,

who sweetened the snatches of a million girls trembling in the sunset, and were red eyed in the morning but prepared to sweeten the snatch of the sunrise, flashing buttocks under barns and naked in the lake,

who went out whoring through Colorado in myriad stolen night-cars, N.C., secret hero of these poems, cocksman and Adonis of Denver—joy to the memory of his innumerable lays of girls in empty lots & diner backyards, moviehouses’ rickety rows, on mountaintops in caves or with gaunt waitresses in familiar roadside lonely petticoat upliftings & especially secret gas-station solipsisms of johns, & hometown alleys too,

who faded out in vast sordid movies, were shifted in dreams, woke on a sudden Manhattan, and picked themselves up out of basements hung-over with heartless Tokay and horrors of Third Avenue iron dreams & stumbled to unemployment offices,

who walked all night with their shoes full of blood on the snowbank docks waiting for a door in the East River to open to a room full of steam-heat and opium,

who created great suicidal dramas on the apartment cliff-banks of the Hudson under the wartime blur floodlight of the moon & their heads shall be crowned with laurel in oblivion,

who ate the lamb stew of the imagination or digested the crab at the muddy bottom of the rivers of Bowery,

who wept at the romance of the streets with their pushcarts full of onions and bad music,

who sat in boxes breathing in the darkness under the bridge, and rose up to build harpsichords in their lofts,

who coughed on the sixth floor of Harlem crowned with flame under the tubercular sky surrounded by orange crates of theology,

who scribbled all night rocking and rolling over lofty incantations which in the yellow morning were stanzas of gibberish,

who cooked rotten animals lung heart feet tail borsht & tortillas dreaming of the pure vegetable kingdom,

who plunged themselves under meat trucks looking for an egg,

who threw their watches off the roof to cast their ballot for Eternity outside of Time, & alarm clocks fell on their heads every day for the next decade,

who cut their wrists three times successively unsuccessfully, gave up and were forced to open antique stores where they thought they were growing old and cried,

who were burned alive in their innocent flannel suits on Madison Avenue amid blasts of leaden verse & the tanked-up clatter of the iron regiments of fashion & the nitroglycerine shrieks of the fairies of advertising & the mustard gas of sinister intelligent editors, or were run down by the drunken taxicabs of Absolute Reality,

who jumped off the Brooklyn Bridge this actually happened and walked away unknown and forgotten into the ghostly daze of Chinatown soup alleyways & firetrucks, not even one free beer,

who sang out of their windows in despair, fell out of the subway window, jumped in the filthy Passaic, leaped on negroes, cried all over the street, danced on broken wineglasses barefoot smashed phonograph records of nostalgic European 1930s German jazz finished the whiskey and threw up groaning into the bloody toilet, moans in their ears and the blast of colossal steamwhistles,

who barreled down the highways of the past journeying to each other’s hotrod-Golgotha jail-solitude watch or Birmingham jazz incarnation,

who drove crosscountry seventytwo hours to find out if I had a vision or you had a vision or he had a vision to find out Eternity,

who journeyed to Denver, who died in Denver, who came back to Denver & waited in vain, who watched over Denver & brooded & loned in Denver and finally went away to find out the Time, & now Denver is lonesome for her heroes,

who fell on their knees in hopeless cathedrals praying for each other’s salvation and light and breasts, until the soul illuminated its hair for a second,

who crashed through their minds in jail waiting for impossible criminals with golden heads and the charm of reality in their hearts who sang sweet blues to Alcatraz,

who retired to Mexico to cultivate a habit, or Rocky Mount to tender Buddha or Tangiers to boys or Southern Pacific to the black locomotive or Harvard to Narcissus to Woodlawn to the daisychain or grave,

who demanded sanity trials accusing the radio of hypnotism & were left with their insanity & their hands & a hung jury,

who threw potato salad at CCNY lecturers on Dadaism and subsequently presented themselves on the granite steps of the madhouse with shaven heads and harlequin speech of suicide, demanding instantaneous lobotomy,

and who were given instead the concrete void of insulin Metrazol electricity hydrotherapy psychotherapy occupational therapy pingpong & amnesia,

who in humorless protest overturned only one symbolic pingpong table, resting briefly in catatonia,

returning years later truly bald except for a wig of blood, and tears and fingers, to the visible madman doom of the wards of the madtowns of the East,

Pilgrim State’s Rockland’s and Greystone’s foetid halls, bickering with the echoes of the soul, rocking and rolling in the midnight solitude-bench dolmen-realms of love, dream of life a nightmare, bodies turned to stone as heavy as the moon,

with mother finally ******, and the last fantastic book flung out of the tenement window, and the last door closed at 4 A.M. and the last telephone slammed at the wall in reply and the last furnished room emptied down to the last piece of mental furniture, a yellow paper rose twisted on a wire hanger in the closet, and even that imaginary, nothing but a hopeful little bit of hallucination—

ah, Carl, while you are not safe I am not safe, and now you’re really in the total animal soup of time—

and who therefore ran through the icy streets obsessed with a sudden flash of the alchemy of the use of the ellipsis catalogue a variable measure and the vibrating plane,

who dreamt and made incarnate gaps in Time & Space through images juxtaposed, and trapped the archangel of the soul between 2 visual images and joined the elemental verbs and set the noun and dash of consciousness together jumping with sensation of Pater Omnipotens Aeterna Deus

to recreate the syntax and measure of poor human prose and stand before you speechless and intelligent and shaking with shame, rejected yet confessing out the soul to conform to the rhythm of thought in his naked and endless head,

the madman bum and angel beat in Time, unknown, yet putting down here what might be left to say in time come after death,

and rose reincarnate in the ghostly clothes of jazz in the goldhorn shadow of the band and blew the suffering of America’s naked mind for love into an eli eli lamma lamma sabacthani saxophone cry that shivered the cities down to the last radio

with the absolute heart of the poem of life butchered out of their own bodies good to eat a thousand years.

sabato 25 ottobre 2014

Del verbo pensare

Carlo Sibilia, deputato


Uno va su internet e quasi automaticamente si trova davanti all'ultima scemenza scritta o detta da un parlamentare del gruppo M5s.
L'ultimo Carneade ad essersi assicurato il suo quarto d'ora di celebrità grazie a un'ignominia è tale Carlo Sibilia, di Avellino, che ha scritto che la "restituzione" da parte del suo partito di un milione e mezzo di euro allo Stato, ha rappresentato l'elemento più rivoluzionario dagli omicidi di Falcone e Borsellino.
Ovviamente subissato da una marea di "sce-mo, sce-mo, sce-mo!", il Deputato, benché molto poco onorevole, Sibilia, si è affrettato a precisare che non era sua intenzione dire ciò che aveva scritto, non era sua intenzione mancare di rispetto alla memoria dei due capi dell'Antimafia, nonché a chiedere ai suoi lettori di non volergliene per ciò che aveva scritto. In altri termini, la solita cantilena del non volevo, mi scuso, sono stato frainteso.
Ovviamente il per nulla onorevole Sibilia non si rende assolutamente conto di quanto possa essere imbarazzante per un cittadino sapere che sugli scranni del Parlamento siedono persone incapaci di mettere per iscritto ciò che pensano (ammesso e non concesso che di questo si tratti nel caso specifico). Sono grosso modo cinque o seimila anni che l'Homo sapiens ha inventato il modo di fissare su un supporto rigido (roccia, papiro, legno, ardesia, carta, o altro) ciò che gli frulla per il cervello. Da pochi decenni ha anche trovato il modo di fissarlo in maniera più eterea, attraverso l'impiego di macchine in grado di computare a partire da un sistema matematico binario. Ma è vero che tutto questo scrivere ha bisogno, per avere un senso, che chi scrive passi prima almeno qualche istante a pensare.
Il Vocabolario Etimologico Pianigiani (lo scrivo soprattutto all'intenzione del tutto fuorché onorevole Sibilia), precisa, nella sua ricca lingua d'inizio secolo, che il verbo pensare, "prov. cat. sp. e port. pensar, fr. penser", deriva dal latino pensare, "propr. pesare e fig. esaminare, apprezzare, intensivo di PÈNDERE pesare (che quindi confronta nella idea col ted. erwägen, da waga bilancia (v. Pesare). Propr. pesare e valutare le cose con l'intelletto; indi Stimare, Giudicare, Volger l'attenzione, Opinare, Deliberare, e più genericamente Meditare, Concepire e formare idee, Immaginare."
Quel che mi colpisce nello scritto del Pianigiani è che tutti i verbi che usa per definire pensare, tutti insieme, costituiscono un'eccellente base di ciò che un cittadino ha diritto di aspettarsi da un parlamentare. Ahimé, il Sibilia sembra aver appreso il verbo pensare un po' in fretta, talmente da giungere a confonderlo con il più colorito petare. Ma basta davvero petare scritti di odioso sentore mafioso e precisare in seguito che non era quello che si era voluto dire?
Purtroppo il club di petomani ai quali il deputato avellinese appartiene conta schiere di membri che trovano oggi nella rapidità cibernetica un modo particolarmente rapido di affermarsi.
In molti casi i membri del club trovano che il metodo migliore per far dimenticare la puzzetta appena prodotta sia 1) di affermare che non sono stati capiti, oppure 2) di dire cose tipo "mi scuso con tutti quelli che...". A onor del vero, il nostro Sibilia il verbo scusare non lo usa nemmeno, non si sa se perché non trovi di dover chiedere scusa a qualcuno, o perché quel verbo sia per lui di troppo difficile comprensione. Ma di solito non lo usano nemmeno i suoi colleghi di club, preferendogli la forma riflessiva scusarsi. La scelta non è casuale: mentre chiedere scusa a qualcuno implica la richiesta di una cosa che può essere accordata o no, scusarsi sottintende una placida autoassoluzione che permette di voltare pagina senza più pensarci su.
Ripeto (e accorgendomi della possibile ambiguità del termine, preciso che ripeto in questo caso è voce del verbo ripetere e non di ripetare), che Sibilia non si autoscusa nemmeno: preferisce precisare che lui Falcone e Borsellino li rispetta tanto che ha addirittura "personalmente chiesto di ricordarli in aula per tutto ciò che hanno fatto", bontà sua, manco i parlamentari si fossero scordati di farlo prima del suo arrivo.
Ma anche questa frase mi pare particolarmente ridicola: è un po' come se un ladro colto sul fatto con un televisore rubato sottobraccio pretendesse di metterci una pietra sopra perché il televisore che aveva prima l'aveva pagato.
Più il tempo passa, più mi pare che il problema principale con molti eletti del M5s sia proprio quella loro sistematica rinuncia al pensare, a favore di un continuo sbottare privo di qualsiasi previa riflessione. È vero che è lo stesso circo mediatico odierno che favorisce questo tipo di comportamento. Ma mi pare che proprio per questo chi si vuole responsabile e si reputa idoneo ad accollarsi responsabilità collettive dovrebbe fare molta più attenzione del cittadino comune a ciò che dice o scrive.
Già, ma forse non per nulla gli eletti del M5s hanno sempre insistito sul fatto di essere persone normali e di non amare l'epiteto onorevole. In questo dobbiamo riconoscere loro un inatteso guizzo di lucidità.

P.S. Meno di tre ore dopo aver pubblicato questo post mi accorgo che un inconfondibile fetore si sprigiona dal mio computer. Vuoi vedere che...? Ebbene sì: l'ineffabile Sibilia ne ha petata un'altra delle sue:
I paesi europei sono in forte difficoltà.
Unione incerta e disoccupazione alle stelle. Mezzo mondo è alle prese con analfabetizzazione, fame e malattie.
I politici spesso prendono a modello i governo (sic) del nord. Norvegia, USA e Canada.
Eppure dov'è che hanno iniziato a sparare i politici... (re-sic) proprio in un paese come il Canada. Opera di un pazzo o di qualcuno che ha ritrovato la ragione?
La mia solidarietà a chi ha perso la vita nell'attentato.
A chi vanno attribuite le colpe?

giovedì 23 ottobre 2014

Una bruttissima immagine

Foto di Steve Mc Curry per il calendario Lavazza

Alcuni anni fa, vedendo una grossa mostra di Steve Mc Curry, a Milano, mi ero almeno in parte ricreduto sul famoso fotografo. È vero che le sue foto avevano, come sempre, quell'inconfondibile quanto irritante look National Geographic, ma è anche vero che molte delle immagini della mostra raccontavano storie intense appoggiandosi su un'innegabile maestria tecnica.
Ora la Lavazza fa uscire il suo calendario 2015, che quest'anno è stato preparato da Mc Curry. Pubblicitari e impaginatori di vario genere e tipo hanno scelto un'immagine particolare, quella corrispondente al mese di luglio, per pubblicizzare il calendario e in quell'immagine mi sono imbattuto più volte negli ultimi tempi (per ingrandirla cliccaci sopra).
La trovo bruttissima, sia nella forma che nel contenuto.
La forma innanzitutto. Quando l'intervento di post-produzione è spinto così in là non mi sembra che si possa ancora parlare di fotografia. È un'immagine-Photoshop, o un'immagine-Lightroom, ma certo non è uno scatto, nella misura in cui ciò che il mio occhio percepisce è molto più il lavoro di correzione grafica di una foto che la foto stessa. Il risultato è peraltro pessimo, almeno a gusto mio, poiché consiste in una di quelle immagini che sembrano uscite da un film di animazione, ma che potrebbero benissimo essere state elaborate da un qualsiasi anonimo smanettatore dotato di una certa competenza. Si possono anche notare i limiti di quella competenza, nella misura in cui le ombre sul personaggio principale non sono coerenti con quella del personaggio che appare sulla destra, mentre il personaggio di schiena tra l'alberello e il personaggio principale appare messo lì con un copia e incolla andato un po' di fretta. L'aspetto materico della pelle della ragazza principale, soprattutto della pelle della faccia, è annullato da un pesante intervento di "pulizia", che dà al soggetto un'aspetto da diva inceronata, o da bambola comprata al supermercato. Sia il cielo che l'alberello sembrano troppo "belli", cioè pulitini e geometrici, per essere veri.
Per quel che riguarda il contenuto, anche lì c'è poco da ridere. La tunica che portano i vari personaggi, blu per la ragazza in primo piano, per i suoi due cloni di spalle e per la donna che innaffia, rispettivamente verde e azzurro per le altre due, la conosco bene. È in realtà un ampio scialle di lana usato dai contadini delle montagne etiopi. Lo so perché ne ho due, uno verde e uno azzurro, che ho comprato sul posto anni fa. Sfido chiunque a trovare delle contadine che lo portano in quel modo, sul corpo nudo. In quegli scialli ci si avvolge, proprio perché sono usati in montagna, dove fa freddo. La lana è relativamente grezza e comunque tessuta a mano, e non ha mai l'aspetto liscio e privo di ogni difetto di quello della "foto".
Tornando per un istante alla pelle della ragazza etiope, tale Asnakech Thomas, basta andare qui e mettere il video in pausa sul decimo secondo dall'inizio per rendersi conto di come la carnagione del volto sia stata oscenamente schiarita. È il solito trucchetto a sfondo razzista che trasforma una faccia africana in qualcosa di ibrido, di più "accettabile" dal grande pubblico in quanto meno diverso da quello che l'acquirente medio di Lavazza vede guardandosi allo specchio. Naomi Campbell e altre modelle di origine africana si sono già ribellate in passato a trattamenti simili. Michael Jackson no, ma quella è un'altra storia.
Un'altra cosa mi dà fastidio nel volto della ragazza, e parlo di contenuto più che di forma, la bocca con le labbra semichiuse, altro trucchetto tendente a sessualizzare il soggetto, usato quasi sistematicamente con le donne e praticamente mai con gli uomini.
Scrivendo questo post ho cliccato qua e là su internet e ho trovato un altro video. Mettendo in pausa a 1 minuto e 18 secondi dall'inizio si vede chiaramente che lo scialle della ragazza è viola, non blu, il che è coerente con i miei ricordi. Quel viola l'ho visto spesso in Etiopia, così come ho visto il verde e l'azzurro, ma quel blu, mai. Si vede che allo Studio Testa, l'agenzia di pubblicità responsable della campagna, non piace il viola.
Insomma, con qualche ricerca supplementare potrei probabilmente trovare ancora più cose da dire su quell'immagine, ma ho altro da fare nella vita, quindi mi fermo qui. Noto solo, come ultima cosa, che un piccolo giro su un internet mi ha permesso di vedere quanto la stampa internazionale abbia osannato questo calendario che a me ha fatto talmente girare i cabasisi che per sbollire la rabbia me ne vado a farmi un buon caffé, assicurandomi che non sia un Lavazza.