martedì 24 giugno 2014

Il nuovo spettacolo

Il re di Girgenti 
dal romanzo di Andrea Camilleri

Creare un nuovo spettacolo è come correre un 100 metri che dura settimane. Sei sempre in apnea, da quando ti svegli al mattino a quando ti riaddormenti la sera e l'unica cosa alla quale pensi è tagliare il traguardo. È come essere in immersione e tornare su piano piano alla ricerca disperata della boccata d'aria salvatrice. Anche se a quella boccata d'aria ci credi sempre, ché sennò faresti un altro mestiere, ci sono lunghissimi momenti nei quali ti pare impossibile, sempre più impossibile. In altri momenti ti sembra a portata di mano, ma un'occhiata in alto basta a farti capire che in realtà è ancora molto, molto lontana.
Negli ultimi trent'anni sono stato quasi sempre solo in scena. Tre volte un mio assistente era visibile, ma non parlava; una sola volta con me c'è stata una collega attrice, ma ero comunque io che facevo la regia. Questa volta è stato tutto diverso. Con Fabio abbiamo lavorato insieme sia al testo che alla regia che all'interpretazione. E possiamo aggiungerci pure le musiche. Ci sono stati momenti complicati, naturalmente, ma siamo arrivati alla fine senza toglierci il saluto, il che è una gran bella cosa. E mi sa che continueremo pure a berci dei caffè insieme e a vederci regolarmente.
Creare un nuovo spettacolo per me implica sempre ricordarmi di ciò che diceva Mastroianni sul mestiere dell'attore, e cioè che "è sempre meglio che lavorare". Sante parole. Qualsiasi siano le difficoltà, cerco di non scordarmi mai che fare il mio mestiere è un privilegio.
Creare un nuovo spettacolo partendo da un testo contemporaneo è una cosa che avevo fatto solo una volta nella vita, con Il fungo, del bulgaro Zvetan Marangozov. Tutte le altre volte ero partito da Omero, da Dumas, da Shakespeare, o da altri, tutti rigorosamente sotterrati e/o cremati secoli addietro. Speravo di non farli rigirare nella tomba con i miei adattamenti e gli inevitabili tagli ai testi originali, ma non credendo all'immortalità dell'anima più che alla finezza del pensiero di Daniela Santanchè, quella mia preoccupazione restava molto periferica. Questa volta abbiamo lavorato su un testo di Camilleri, che andrà sì per gli 89 anni, ma che è molto, molto meno rincoglionito di Matteo Salvini, che va per i 42. Se tutto va bene, Camilleri lo spettacolo dovrebbe vederlo tra un mesetto e a quell'idea io già mi preoccupo. Io sono come Robert Redford (che è sempre una bella frase da scrivere): sono decenni che faccio questo mestiere, ma mi dico sempre che un giorno o l'altro arriverà uno dell'EICF, l'Ente Internazionale Contro le Frodi, mi batterà un dito sulla spalla, da dietro, e appena mi sarò girato verso di lui mi dirà: "Basta. Abbiamo capito che sei tutto una frode, che non sei capace di far niente. Tornatene a casa". Spero tanto che Camilleri non sia un funzionario dell'EICF.
Creare un nuovo spettacolo è come aver voglia, per mesi, certe volte per anni, di condividere qualcosa che si ama e di avere paura di non riuscirci. Te l'immagini? Vuoi far vedere una cosa bellissima, che ti ha cambiato la vita, a qualcuno a cui vuoi bene e lui, o lei, la guarda e ti dice: "Mmmhhh, bellino". Roba da andarsene subito ad arruolarsi nella Legione Straniera.
Questa volta la Legione aspetterà. La cosa più bella dopo le prime tre rappresentazioni è stato il numero di persone che mi hanno detto che si erano commosse. Sembra poco, ma commosso non è una parola che si usa a teatro. Al cinema sì, ma non a teatro. Anzi, per un certo numero di teatranti quella è una brutta parola, come se fare teatro dovesse per forza voler dire sconcertare, magari provocare, interessare, spingere alla riflessione, ma comunque non commuovere. Sarò un uomo d'altri tempi, ma a me quella parola piace proprio, perché se ti commuovi lo fai con chi ami, con chi ami anche solo per un momento, ma comunque con chi condividi qualcosa di intenso e di profondo. E allora grazie di cuore a tutti quelli che quella parola me l'hanno detta senza esitare, senza averne paura, da amici. Creare un nuovo spettacolo è sperare, contro ogni probabilità, che qualcuno alla fine ti dica quella parola. E allora, grazie a chi l'ha fatto.