venerdì 29 novembre 2013

Di un hotel


Questa mi era sfuggita. Ma poi un'amica francese ne ha parlato su Facebook.
Dunque, cominciamo dall'inizio. Dalla metà del '600 alla fine del '700 la regione di Città del Capo fu amministrata dall'Olanda. Normale quindi che un certo numero di olandesi ci andassero ad abitare. Dopo la revocazione dell'Editto di Nantes da parte di Luigi XIV, nel 1685, arrivarono poi gruppi di protestanti francesi. Tutta quella brava gente naturalmente schiavizzò le popolazioni locali. Nel 1707 il colono olandese Hendrik Biebouw, plagiando con ben 256 anni di anticipo quanto detto dal primo marito di Jacqueline Onassis da un balcone berlinese, fu il primo bianco a pronunciare la famosa frase "ik ben een Afrikaander", che l'alta stima che ho per la tua intelligenza mi eviterà di tradurre.
Tutti questi olandesi si definivano "boeri", non tanto perché la parola fosse nettamente più corta di marron glacé, ma perché boer in olandese vuole dire contadino. Alcuni di loro fondarono un paesino a cui diedero il nome di Bloemfontein, cioè Fontana dei Fiori, che più tardi gli inglesi trasformarono in città. Bloemfontein finì col diventare capitale di uno Sato, lo Stato Libero dell'Orange, che fu poi sconfitto dagli inglesi nella famosa guerra dei cuneesi al rum, pardon, dei boeri, alla quale partecipò anche il venticinquenne Winston Churchill.
Bloemfontein è ancora oggi una specie di capitale degli Afrikaan, che ovviamente non sono tutti razzisti ma che, come gruppo, del razzismo e dell'apartheid sudafricano hanno costituito la colonna vertebrale.
Ora, se non mi fossi lasciato andare a questo lungo preambolo con il solo scopo di spacciare per cultura generale quella che è solo una piccola abilità a consultare internet, ti avrei detto subito che poco fuori Bloemfontein c'è un un hotel, l'Emoya Luxury Hotel & Spa, con tanto di parco privato di 270 ettari. Rispetto agli standard europei, i prezzi dell'hotel sono modici: puoi dormirci da solo per 68€, o con la migliore amica di tua moglie per 76.
Ma c'è di meglio: oggi l'Emoya Luxury Hotel & Spa si è dotato di una nuova struttura, composta da un certo numero di camere disposte in cerchio in piena natura. Non sono proprio camere, sono bungalow. No, non sono proprio bungalow, sono baracche. Come, baracché?, mi dirai. Sì, baracche con i muri di latta, come potrai vederlo tu stesso qui.
Ma vediamo cosa dice di questa iniziativa il sito dell'hotel:
"Milioni di persone vivono in insediamenti informali in tutto il Sudafrica. Questi insediamenti sono fatti di migliaia di case, chiamate anche baracche, catapecchie o makhukhu. Una baracca di solito è fatta di vecchie lastre di metallo ondulato o di qualsiasi altro materiale impermeabile, assemblato in maniera da creare una piccola "casa" o rifugio dove vivere normalmente (sic). Una lampada alla paraffina, delle candele, una radio a batterie, un gabinetto esterno (chiamato anche long drop, cioè latrina all'aperto) e un bidone nel quale si accende il fuoco per cucinare sono parti integranti di questo modo di vivere (lifestyle nel testo originale).
Adesso tu puoi vivere questa esperienza soggiornando in una baracca, nella sicurezza dell'ambiente di un parco animalista privato. Questa è l'unica baraccopoli al mondo con riscaldamento a pavimento e ADSL! (giuro che il punto esclamativo non è mio).
La baraccopoli è ideale per stare insieme, fare un barbecue, organizzare un party a tema e vivere l'esperienza di una vita. Posti letto per 52 persone. Le nostre baracche sono assolutamente sicure anche per i bambini."
Vuoi davvero che commenti questa roba? No, guarda, preferisco andare a lavarmi i denti e fare una bella doccia, visto che non ho resistiro a scrivere questo post mentre ero ancora seduto al tavolo della prima colazione. Buona giornata.

giovedì 28 novembre 2013

Best of


Qualche giorno fa ho passato otto ore al volante, tra la Toscana e la Provenza. Otto ore al volante non sono mai una bella cosa. Se poi le passi percorrendo autostrade che conosci a memoria, con un numero sesquipedale di tunnel e oltretutto sotto una pioggia battente, allora non c'è davvero di che rallegrarsi.
Guidavo, ascoltavo musica e pensavo a questo e a quello, senza impegno. A un certo punto mi sono detto che avrei cercato di fare, mentalmente, una lista dei miei CD preferiti. Errore. Grave errore.
Immediatamente il mio cervello è passato in modalità lista, come lo fa molto più spesso di quanto sia ragionevole per un bipede normalmente costituito.
Come stabilire la lista dei miei CD preferiti? Ho incominciato a pensarci su. Rapidamente mi sono accorto che scegliere un CD piuttosto che un altro sarebbe stato come scegliere tra una banana con la Nutella, un film di Kurosawa e un sigaro cubano. Come sarebbe possibile decidere cosa sia meglio tra le Scene infantili di Schumann, Ne me quitte pas di Brel e Like a Rolling Stone di Dylan?
Allora ho esitato. Ma sai com'è: una volta che hai pensato a una nuova lista non c'è niente da fare, devi andare avanti.
E sono andato avanti.
Premessa: immagina questa lista come una cosa circolare piuttosto che verticale. Voglio dire che non riesco proprio a immaginare un numero 1 seguito da un 2 e così via. Questi CD sono tutti i miei preferiti. Ognuno di loro è il mio preferito, a modo suo, e non ce n'è uno che preferisco più di un altro (vedi banana alla Nutella ecc.). Allora, eccoli qua.
Making Music, di Zakir Hussain. Lo metto per primo perché è forse più emblematico degli altri di ciò che mi piace. Due strumentisti indiani, due occidentali: Zakir Hussain ai tabla, Hariprasad Chaurasia al flauto, Jan Garbarek ai sassofoni tenore e soprano, John McLaughlin alla chitarra. L'ho sentito la prima volta nella macchina di un francese che mi riaccompagnava in albergo dopo una lauta cena a Hyderabad, in India. È stato la mia porta d'ingresso alla musica indiana, da cui sono passato a quella di altri paesi.
Zakir Hussain è figlio del grande Alla Rakha, che fu per anni l'accompagnatore di Ravi Shankar; Hariprasad Chaurasia è il più grande suonatore vivente di bansuri, il tipico flauto traverso in bambù indiano; Jan Garbarek, sassofonista norvegese, è difficilmente classificabile in quanto la sua musica spazia dal jazz al folk al classico; John McLaughlin, chitarrista inglese, è uno che ha suonato tanto con Miles Davis che con i Rolling Stones. Qui un brano dell'album.
Wandererfantasie, ovvero la sonata in do maggiore D760 op. 15 di Schubert, nella versione di Vladimir Ashkenazy (anche se quella di Perahia non è niente male). È un pezzo breve, poco più di venti minuti, che di solito si trova su un CD che comprende anche una sonata di Schubert, o di Schumann. Mi piace ascoltarla al mattino, a colazione, perché è una musica che mi dà energia per tutta la giornata.
Time Out of Mind, trentesimo album di Bob Dylan, pubblicato nel '97. Dylan è il cantante che ho più ascoltato in vita mia. Nel mio IPod ho 31 dei suoi album. Ma questo è davvero straordinario. La voce è roca, in certi momenti assomiglia quasi a quella di Howlin' Wolf. Il testo di Highlands, lunga ballata di 16 minuti che incomincia con My Heart is in the Highlands, titolo di una poesia di Robert Burns, mi fa godere come un grillo ogni volta che l'ascolto. Una perla. Una meraviglia. Qui uno dei pezzi.
Savane, di Ali Farka Touré. La musica del Mali è all'origine di quello che sarebbe poi diventato il blues. Touré apparteneva alla piccola etnia degli Arma, che non conta oggi più di 20.000 persone. Ha suonato con Ry Cooder, con Taj Mahal e con l'immenso suonatore di kora Toumani Diabaté. Ha passato gran parte della sua vita nel suo villaggio natale, Niafunké, di cui è stato anche sindaco, 250 chilometri a sud-ovest di Timbuktu. Suo figlio, Vieux Farka Touré, è anche lui un ottimo chitarrista e cantante. Il CD puoi ascoltarlo qui.
The rain, del gruppo Ghazal. Che dire? L'ho riascoltato ieri ed è gioia pura. Tre musicisti straordinari fanno parte del gruppo: Kayhan Kalhor, iraniano, al kamancéh1, Shujaat Usain Khan al sitar e Sandeep Das alle tabla. Il CD è edito dalla ECM, la casa discografica principalmente jazz, ma aperta alla world music. Un estratto è ascoltabile qui.
Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, dei Beatles, 1967. Tutti conoscono questo album storico, che però merita di essere riascoltato e riascoltato e riascoltato con attenzione.
Brian Wilson Presents Smile. Nel 1966 i Beach Boys, che avevano pubblicato l'anno prima quel Pet Sounds che avrebbe tanto ispirato i Beatles per Sgt. Pepper's, lavoravano a un nuovo album, destinato a intitolarsi SMILE, quando il loro leader, Brian Wilson, malato di depressione, abbandonò il gruppo. I Beach Boys pubblicarono allora Smiley Smile, che non rifletteva però le intenzioni del suo ideatore. È solo nel 2004 che Wilson ha rimasterizzato e completato Smile, che si è così rivelato come quel capolavoro su cui molti vagheggiavano da quattro decenni. Qui troverai uno dei migliori pezzi dell'album, Good Vibrations.
L'imperatore, concerto per pianoforte e orchestra n° 5 di Beethoven, nellinterpretazione di Arturo benedetti Michelangeli con la Wiener Philarmoniker diretta da Carlo Maria Giulini. L'arrivo delle prime note di piano dopo la lenta introduzione orchestrale mi fa ululare come il lupo di Tex Avery (vedi qui).
Shringar, di Sridhar e Shivakumar Krishnamurti, due fratelli, il primo al sarod e il secondo al violino. Il sarod è uno strumento a corde pizzicate del nord dell'India. Il CD contiene due pezzi, ma il più bello ed emozionante è senz'altro il primo il raga bageshri, un raga notturno del 1500, creato alla corte dell'imperatore Akbar. Un giorno o l'altro dovrei scrivere un post sulla musica classica indiana. Ah, ultima cosa: il CD è pubblicato da Real World, la casa discografica di Peter Gabriel.
Blues In My Bottle, di Lightnin' Hopkins, di gran lunga il mio cantante di blues preferito. Allievo del grande Blind Lemon Jefferson, Hopkins è il più grande rappresentante di quel blues rurale di cui fanno parte giganti come Big Bill Broonzy, Sonny Boy Williamson e il duo Sonny Terry e Brownie McGee. Se non conosci Hopkins, qui c'è un bel pezzo.

Ho elencato dieci CD e mi fermo arbitrariamente qui anche se mi sembra ingiusto trascurare Pirates di Rickie Lee Jones, il Raga Lalit suonato da Hariprasad Chaurasia, Night Silence Desert di Kayhan Kalhor e M.R. Shajarian, I took up the runes di Jan Garbarek, per non parlare di una meravigliosa raccolta di 5 CD di Woody Guthrie.
E Apostrophe (') di Frank Zappa? E Kind of blue di Miles Davis? E Little Criminals di Randy Newman?
Basta, basta...

E le Suite per violoncello solo di Bach?
Ho detto basta!

1Non so se si scriva così in italiano il nome di questo strumento. Su Wikipedia c'è solo un articolo inglese e poche altre lingue, non ce n'è nemmeno uno sulla musica iraniana... Comunque è una specie di viola a tre o quattro corde.

sabato 2 novembre 2013

Leggere una pubblicità

Io che sono uno che guarda molto la televisione, non guardo mai la pubblicità. Appena il programma è interrotto da una serie di spot cambio canale e passo due o tre minuti a guardare qualcosa d'altro. Lo faccio perché non sopporto di sottomettermi al lavaggio del cervello di chi vuole vendermi macchine, dentifrici, detersivi, o qualsiasi altra cosa attraverso insulsi annunci spesso intrisi di bieco maschilismo o semplicementi zeppi di imbarazzanti appelli a ciò che di meno ragionevole e presentabile c'è in un essere umano.
Mi capita però, quando qualcuno mi segnala l'esistenza di uno spot particolarmente "bello", oppure controverso, di andarmelo a cercare su YouTube. Così stamattina, su segnalazione di un mio contatto su Facebook, sono andato a guardare lo spot della FIAT 550L destinato alle televisioni statunitensi. L'ho fatto perché la ragazza che segnalava quello spot lo commentava scrivendo "terribile... giusto per capire che immagine diamo noi italiani e noi donne." Forse sarebbe bene che prima di continuare la lettura di questo post te lo andassi a vedere anche tu, qui.
A parte la solita dose di maschilismo e la solita necessità di far vedere donne procaci che si spogliano per vendere una macchina, io non ci ho trovato niente di speciale. Non solo, l'ho trovato piuttosto lusinghiero per noi italiani.
Innanzitutto non dimentichiamo che lo spot è destinato al mercato statunitense e andiamo a vedere perché è praticamente inesportabile al di fuori degli USA. Il personaggio che apre lo spot e che poi cavalca attraverso le vie di un paesino settecentesco (lo spot è stato girato nelle vie della vecchia Salem, nella Carolina del Nord) altri non è che il patriota Paul Revere, di cui ogni americano conosce almeno il nome, tra l'altro celebrato da Longfellow nella famosa poesia Paul Revere's Ride.
Revere, nella notte del 18 aprile 1775, venuto a sapere che le truppe britanniche basate a Boston si apprestavano ad attraversare il fiume Charles per poi scatenare le prime due battaglie della guerra d'indipendenza americana, quelle di Lexington e di Concord, si lanciò nel Midnight ride, la corsa di mezzanotte, nota negli Stati Uniti quasi quanto la spedizione dei Mille da noi. Prima attraversò il fiume nonostante la cosa fosse vietata, sfuggendo alla vigilanza delle guardie della nave da guerra Somerset, lì ancorata. Poi, giunto sull'altra sponda, partì a cavallo allertando dell'arrivo del nemico ogni casa sul suo cammino. Secondo la leggenda, Revere gridava "The British are coming!", il che salvò molte vite umane e permise ai rivoluzionari di organizzarsi, vincendo già l'indomani la battaglia di Concord.
Uno spot americano che incomincia con un uomo in costume settecentesco che grida "The British are coming!" è un po' come uno spot italiano che iniziasse con uno vestito da antico romano che dicesse "il dado è tratto", o con uno con barba e camicia rossa che dicesse "qui si fa l'Italia o si muore".
Ma andiamo avanti. Una volta che abbiamo visto Revere dare l'allarme giusto, "The Italians are coming!", eccoci trasportati nelle vie di un paese del '700, tra personaggi che portano costumi d'epoca. In particolare vediamo varie giovani donne che si strappano quei vestiti puritani e si tagliano i capelli sulla musica di una canzone del gruppo rock inglese T-Rex. Le parole della canzone che sono state scelte per accompagnare le immagini sono "No, you won't fool the children of the Revolution", cioè, no, non la farete ai figli della rivoluzione.
In un altro momento vediamo un ragazzo che, dopo aver cambiato la vecchia insegna di un pub con una, nettamente più moderna, con su scritto "club", scaraventa via da un tavolo di legno quattro tazze da té rimpiazzandole con quattro tazzine di espresso.
La ragazza che parla alla fine dello spot dice "This is gonna be so much better than the tea party", cioè questo sarà molto meglio del tea party. Qui ci sono due interpretazioni possibili, una valida quanto l'altra. La prima è quella che fa pensare al Tea Party del 16 dicembre 1773. Quel giorno decine di patrioti buttarono a mare quintali di té inglese per protestare contro il fatto che le tasse sul té andassero integralmente alla Gran Bretagna, senza alcun profitto per le sue colonie americane. Oggi a Boston esiste un Tea Party Museum. Il sito del museo ti invita a "incontrare i colonizzatori, esplorare le navi e buttare a mare del té proprio come lo fecero i Figli della Libertà nella notte fatale del 16 dicembre 1773. Fai uno stop alla Tea room di Abigail e visita il negozio di souvenir per comprare dei ricordi speciali."
Un'altra lettura delle stesse immagini è però possibile, quella che ci rimanda al Tea Party Movement la cui attivista più nota è l'ex-candidata alla vicepresidenza degli Stati Uniti Sarah Palin. È bene ricordare che questo Movimento raggruppa l'insieme dei Repubblicani più conservatori, bigotti e imbarazzanti degli USA di oggi. Vista sotto questa luce, la frase This is gonna be so much better than the Tea Party suona allora come un chiaro appello a quella clientela giovane, trendy e non bacchettona alla quale la FIAT spera di vendere la sua 500L. È la clientela che non frequenta i vecchi pub, ma i nuovi club e che non porta abiti da Amish, ma spregiudicate minigonne e body più o meno attillati.
Da notare la presenza, in due brevi momenti, dell'inevitabile afro-americano che prima si spoglia da quella che potrebbe essere una livrea da domestico e poi riappare altrettanto brevemente verso la fine alla sinistra di tre ragazze (una bionda, una mora e una rossa, manco a farci caso) che hanno alla loro destra il classico anglosassone biondo. Ovviamente il biondo, che è poi quello che aveva cambiato l'insegna del pub, porta una camicia bianca abbastanza larga, mentre l'afro-americano veste una maglia grigia molto attillata che gli permette di fare bella mostra dei suoi pettorali. Come spesso accade, il bianco lo vediamo mentre fa qualcosa (cambia l'insegna del pub), mentre l'afro-americano si limita a essere qualcosa (muscoloso, quindi sexy).
Detto tutto ciò, non vedo bene cosa ci sia di terribile in questo spot, al di fuori dei triti cliché sessisti e razziali, il che, mi dirai, non è poca cosa. Di solito noi italiani siamo visibili nelle pubblicità statunitensi come mangiatori di pizza, suonatori di mandolino, mafiosi e patetici latin lover de noantri. Una battuta che ho sentito mille volta vuole anche che i carri armati del nostro esercito abbiano una sola marcia, la marcia indietro.
Una recente inchiesta ha rivelato che il 78% degli adolescenti statunitensi tra i 13 e e i 18 anni associano l'idea del tipico italo-americano con il crimine organizzato o con il lavoro dell'operaio, mentre secondo una precedente inchiesta della Response Analysis Corporation il 74% degli statunitensi crede che la maggior parte degli italo-americani abbiano qualche connessione col mondo del crimine organizzato. Come lo spiega un documento dell'Order Sons of Italy in America, la più vecchia confraternita italo-americana, "le campagne pubblicitarie nelle quali appaiono italo-americani usano stereotipi che presentano immagini deformate delle persone di origine italiana: gli uomini sono vecchi, disonesti e/o violenti; le donne sono vecchie casalinghe sovrappeso e nonne vestite di nero, col grembiule; grazie al successo della serie TV I Soprano e altre simili trasmissioni, la maggior parte delle pubblicità presentano gli italiani come dei banditi." Tutto questo mentre, secondo il Dipartimento della Giustizia, "meno dello 0,0025% dei 26 milioni di statunitensi di origine italiana è legato al crimine organizzato [e] i due terzi degli italo-americani sono oggi imprenditori, medici, insegnanti, impiegati, ecc."
Per tutto ciò dico che da questo punto di vista lo spot mi sembra piuttosto lusighiero nei nostri confronti, perché dà di un prodotto tecnologico italiano una visione (patetica o no che possa sembrarci) di modernità e di "rivoluzione." Anche il fatto che si vedano giovani donne strapparsi di dosso vestiti lunghi e cuffiette alla Vermeer, che il pubblico americano identifica con i costumi puritani, mi sembra positivo in un Paese ossessionato dalla pseudo "invasione islamica", nel quale i rappresentanti del Tea Party mettono in guardia contro il pericolo che un giorno tanto le mamme del Middlewest quanto le impiegate di Manhattan possano essere obbligate a portare il chador.
Siamo chiari: non me ne importa nulla di sapere come la FIAT venda le sue automobili negli Stati Uniti. Ma mi innervosice sempre vedere quanto l'autolesionismo che è il nostro sport nazionale preferito ci porti all'autoflagellazione anche quando non c'è proprio di che.


venerdì 1 novembre 2013

Scrivere in corsivo

Ero già stato colpito, qualche settimana fa, dalla notizia che nelle scuole di 45 dei 50 Stati statunitensi non è ormai più obbligatorio imparare a scrivere in corsivo. Questa mattina Il Venerdì di Repubblica ne parla più in dettaglio, riportando in particolare una frase pubblicata da Morgan Polikoff, un assistente universitario presso la Rossier School of Education della University of Southern California, sul Los Angeles Times: "Con tutti i problemi che ha l'istruzione in questo Paese gli insegnanti farebbero meglio a concentrarsi sulle materie che servono davvero."
Viene immediatamente da chiedersi quali mai possano essere le materie "che servono davvero". Al tempo della mia frequentazione delle scuole medie, le materie insegnate erano italiano, latino, lingua straniera, storia e geografia, matematica, scienze naturali, musica, disegno, religione ed educazione fisica. Oggi alcune di quelle materie sono sparite (latino, scienze naturali, disegno), mentre altre hanno cambiato nome o carattere: la lingua straniera è diventata lingua inglese, la religione è diventata religione cattolica (sempre con possibilità di domanda di esenzione), la matematica è diventata matematica e scienze, l'educazione fisica è diventata scienze motorie e sportive. Nuove materie hanno fatto la loro apparizione: tecnologia, seconda lingua comunitaria, arte e immagine, con in più la possibilità di approfondimento di una materia a scelta.
Uno dei problemi fondamentali della scuola è naturalmente che la massa di informazioni di cui disponiamo oggi è enorme rispetto a quella di cui disponevano uomini e donne di qualche secolo fa. Questa massa fa sì che sia sempre più difficile far tenere all'interno del tempo della scuola l'insegnamento di un numero così gigantesco di dati. Ricordo, a questo proposito — e mi pare di averne già parlato in questo blog — che si stima che Shakespeare, in tutta la sua vita, abbia avuto accesso a non più di una trentina di libri. È chiaro che davanti al gigantismo del sapere disponibile la società si trova di fronte alla necessità di operare delle scelte e a quella di rinviare a più tardi, nella vita di un giovane, l'apprendimento di tutta una serie di materie che nei secoli passati potevano essere insegnate a età più precoci. E siccome è inimmaginabile che oggi una sola persona possa essere erudita in campi tanto diversi quanto la letteratura classica, la fisica quantistica, la musica e la microbiologia, il nostro mondo è molto più specialistico di quanto non lo fosse quello del Medioevo o del Rinascimento. Eliminare materie di studio e proporne di nuove non è di per sé aberrante, è anzi indispensabile. Meno chiari però sono i criteri che portano a queste eliminazioni e a queste nuove proposte.
Che cosa "serve davvero" nella scuola dell'obbligo? E, per tornare al punto di partenza di questo post, "serve davvero" saper leggere e scrivere e in corsivo? Soprattutto, cosa vuol dire "serve davvero"?
Mi pare banale segnalare quanto oggi viviamo in una società la cui economia è sempre più basata sulla produzione di cose che non servono a niente e il cui unico scopo è di continuare a far funzionare una macchina che peraltro funziona sempre peggio e che sembra secretare sempre più insoddisfazione, infelicità, precarietà, umiliazione e perdita del senso della vita. Mentre filosofi e umanisti di tutti i tempi e di tutte le origini geografiche e culturali si sono sforzati di farci notare che la felicità è raggiungingibile solo attraverso una certa frugalità e una chiara distinzione tra ciò che serve davvero e ciò che è superfluo, ci troviamo oggi davanti a un mondo che si applica sempre più a farci accettare come indispensabile il superfluo e come rinunciabile l'indispensabile. Lo sviluppo delle tecniche dell'informazione funziona sempre di più come un vero e proprio lavaggio del cervello che ci porta a comperare l'ultimo smartphone o l'ultimo vestito alla moda, a vedere l'ultimo film e a sentire l'ultimo CD (prodotti entrambi con molta più attenzione al mercato che al contenuto), con la scusa che tutto questo produce lavoro, fa girare l'economia e quindi ci rende più felici. Che poi questa pseudo-felicità ci sia offerta sulla pelle di quei milioni e milioni di individui che quei prodotti li creano lavorando in condizioni degradanti e umilianti è cosa considerata secondaria. E se qualcuno si lamenta, basta che la grande multinazionale x o y versi una percentuale irrisoria dei suoi giganteschi profitti in opere di beneficienza per rifarsi una verginità.
Non sto dicendo che la tecnologia sia inutile, che il fatto di poter ascoltare un trio di Schubert o una canzone di Leonard Cohen su un IPod sia qualcosa di negativo, che la possibilità di guarire un tumore o di offrire una gamba artificiale a un amputato siano cose da niente. Rifiuto però l'idea che l'immensa dose di infelicità secretata dallo sviluppo tecnologico sia da considerarsi come un ineluttabile danno collaterale.
Non saprei dire con esattezza a cosa serva saper leggere e scrivere in corsivo. Ma non saprei nemmeno dire con esattezza a cosa serva leggere le poesie di Walt Whitman, guardare un quadro di Vermeer, camminare sotto la navata centrale dell'Abbazia di Westminster, o ascoltare un'improvvisazione di Charlie Parker. Dirò di più, non saprei nemmeno dire con esattezza a cosa serva quella strana cosa alla quale ho dedicato tutta la mia vita, il teatro.
Moltissimi anni fa — ero ragazzo, ma me ne ricordo come se fosse successo ieri — su un tram milanese, lungo via Torino, mi venne una strana idea: mi chiesi che forma avrebbe potuto avere una macchina che servisse a capire a che cosa serve. Una cosa che serve a capire a che cosa serve.
Oltre ad indicare quanto la mia mente fosse già bacata in gioventù, l'idea di una cosa che serve a capire a che cosa serve non mi pare però solo un abile gioco di parole. Tant`è che dopo averci pensato su un bel po', per più giorni a dire il vero, giunsi alla conclusione che l'unica cosa che serva a capire a che cosa serve è la vita. Vabbé, come filosofo ammetto di essere uno scalino, o una gradinata, o un dirupo chilometrico sotto Spinoza. Però quella strana cosa che mi è venuta in mente anni fa su un tram in via Torino non me la sono mai dimenticata e in un certo senso mi è poi molto "servita" nella vita, soprattutto in momenti difficili. E non a caso mi è tornata ancora in mente questa mattina, leggendo Il Venerdì di Repubblica.
Credo che la vera questione sollevata nelle mie piccole connessioni neuronali dalle aberranti parole di Morgan Polikoff non sia tanto quella di sapere se la lettura e la scrittura in corsivo "servano" a qualcosa, ma di accettare o no che un altro, se non addirittura la società nel suo insieme, abbia il diritto di impormi cosa possa servirmi e cosa no. Io quel diritto non lo vedo. E se anche ammetto senza difficoltà che tutto questo lo sto scrivendo muovendo le dita sulla tastiera di un computer alla velocità di un bradipo anestetizzato, mi dico che non solo il giorno in cui rinunciassi a usare la meravigliosa Montblanc Meisterstück regalatami da mia suocera qualche anno fa perderei qualcosa di quel tutto che fa di me ciò che sono, ma anche che se ai miei nipoti o pronipoti non fosse nemmeno più insegnato a scrivere senza servirsi di un computer sarebbe un grande peccato e una grande violenza che gli sarebbe fatta. Perché? Non lo so: lo sento, lo percepisco. E alle mie sensazioni e alle mie percezioni non intendo assolutamente rinunciare, anche se magari alla Rossier School of Education o in qualche ministero c'è qualcuno che pensa che non servano a niente.