venerdì 29 marzo 2013

Di mio padre



Ieri sera un'inattesa constatazione mi ha attraversato il cervello: due settimane fa ricorreva il centesimo anniversario della nascita di mio padre. Come passa il tempo!..., mi dirà il filosofo lettore.
Naturalmente mio padre a cent'anni non c'è arrivato. Non è nemmeno arrivato ai settanta, come pure suo padre prima di lui. Se credessi a un'ineluttabile fatalità familiare forse incomincerei a scrivere bigliettini di ringraziamento e di saluto, ma siccome quest'ultima frase non avrà mancato di far girare a grande velocità a mia moglie quelle cose che girano a loro quando a noi girano gli zebedei, soprassederò.
A proposito di zebedei: ti sei mai chiesto perché si chiamino zebedei? Ovviamente noi tutti accaniti lettori dei Santi Vangeli ben sappiamo che Zebedeo era il padre di due apostoli, Giacomo il Maggiore e Giovanni. Sappiamo anche, da Marco 3,17, che Gesù a quei due “pose nome Boanerghes, che vuol dire figli del tuono”. Ma perché Zebedeo era un tuono? Per via di una sua smodata passione per i fagioli che aveva finito col procurargli un'aerofagia cronica? Per la smisurata energia sessuale che gli veniva dal possesso di due testicoli grossi come uova di struzzo? Non si sa. Misteri della fede.
Con mio padre non ci siamo mai capiti granché. Neppure con mia madre, se è per quello. Ma non importa. Quel che mi ha colpito è stato realizzare che, visto che mio padre era del '13, suo padre e suo suocero erano entrambi nati, tanto per dirne qualcuna, prima che Marconi inventasse la radio, Michelin gli pneumatici per auto e i fratelli Lumière il cinema; prima della scoperta della radioattività, prima della prima Olimpiade e persino prima del primo numero della Gazzetta dello Sport. Due generazioni e, hop!, un altro mondo.
Come passa il tempo!...
Di mio padre ho sempre saputo poco, era uno che non parlava tanto. So che era figlio di un viaggiatore di commercio tedesco che finì poi con l'emigrare negli Stati Uniti. Nel New Jersey mise su una fabbrichetta di non so bene cosa verso la fine del 1928. Poco dopo arrivò il crac del '29, nonno Rodolfo perse tutto, morì e fu sotterrato nella ridente cittadina di Hoboken, cioè dall'altra parte dell'Hudson rispetto a Manhattan. Quel che mi resta di lui è un certificato di morte sul quale risulta sposato a una sconosciuta. È bello avere un nonno bigamo.
Ma torniamo a mio padre, che nacque in Germania, nell'industriosa Ruhr. Un anno dopo la sua nascita, sua madre lo portò in Italia, probabilmente per farlo vedere alla famiglia. Nonna Maddalena, che di cognome faceva Cavanna, in Italia aveva previsto di restarci qualche settimana. Ma ecco che uno studente serbo, tale Gavrilo Princip, si impicciò della cosa, obbligando mia nonna a cambiare programma. Già che c'era, Gavrilo ne approfittò per trasformare l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria-Ungheria in colabrodo, mediante l'impiego di una pistola Browning FN M1910 semiautomatica di fabbricazione belga (numero di serie 19074, caricatore .32 ACP). Il fattaccio, ancor prima di irritare nonna Maddalena (detta Lena), fece girare gli zebedei (ci risiamo...) all'imperatore Francesco Giuseppe, che pensò bene di dichiarare guerra alla Serbia, dando così inizio alla prima guerra mondiale.
Ma torniamo a nonna Lena. Era alla stazione di Torino, dove l'avevano accompagnata i genitori, e si apprestava a ritornare in Germania col figlioletto in braccio. Ma ecco che sua madre, cioè la mia bisnonna, temendo di vedere il nipotino in pericolo di morte nella Germania del Kaiser Guglielmo che tutti sapevano sarebbe presto entrata in guerra, convinse nonna Lena a tornarsene da sola dal marito lasciando il pargolo, nonché mio futuro genitore, in Italia. Tanto, come al solito, la guerra era destinata a durare pochi mesi...
Fatto sta che il piccolo Schusterino si ritrovò a vivere coi nonni in un paesino piemontese, Mosso Santa Maria, che darà più tardi i natali al pittore Ugo Nespolo, di cui mia moglie possiede una litografia e che io ho più volte incontrato a casa di Enrico Baj (com'è piccolo il mondo!...).
Insomma, per farla breve, visto che sua madre se l'era lasciato dietro a poco più di un anno, mio padre conobbe i suoi genitori quando di anni ne aveva già sei, il che dev'essere una cosa assai strana.
A parte questo, dell'infanzia di mio padre non so praticamente niente. So solo che è a quattordici anni che ha portato il suo primo paio di pantaloni lunghi. Lo so perché quando me lo disse la cosa mi colpì molto. Io i miei primi pantaloni lunghi li avevo avuti a nove anni, per la cresima. Oggi tutti i neo-genitori sembrano invece d'accordo sul fatto che senza pantaloni lunghi in tripla felpa foderata di pelo di yack un bambino rischierebbe di trasformarsi in ghiacciolo alla menta già dal primo di ottobre anche se abita a Salerno. (O tempora, o mores!...).
D'accordo: questo post è sgangherato e fa acqua da tutte le parti almeno quanto la logica politica di Beppe Grillo, se non di più (no, di più non è possibile).
Resta il fatto che pensare che mio padre è nato cent'anni fa mi fa strano. Tutto qui.

P.S. Quello sulla foto, naturalmente, non è mio padre, bensì il Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster. Siccome in questo momento sono in Alsazia non ho sottomano foto di mio padre. Allora mi sono detto che la foto di un omonimo illustre sarebbe stata meglio di niente.

martedì 26 marzo 2013

Robert Doisneau, manutentore

Robert Doisneau, L'automobile rotta, 1960
Sono in tournée in Francia con le mie due valenti tecniche, Elena e Silvia. In questo momento siamo in Alsazia. Temperatura polare, cielo da pianura padana. Per fortuna ci hanno messo a dormire, vicino a Strasburgo, in una casa tradizionale, cioè una cosa che assomiglia furiosamente a una casa Playmobil, con meno plastica e più legno. C'è una bellissima stufa a legna in ceramica verde, grande come un piccolo armadio, e la casa è oltretutto arredata con gusto.
Nella camera dove dormiamo Elena e io ci sono dei libri di fotografia e ieri sera ne ho sfogliati due di Doisneau. Grande fotografo, non c'è che dire. Però guardando quelle foto mi sono fatto due domande: 1) le avrei apprezzate allo stesso modo se non avessi saputo che erano di Doisneau? 2) Qual'era la parte di piacere che mi veniva dal fatto che si trattava di foto scattate una sessantina d'anni fa?
La risposta alla seconda domanda è relativamente semplice: quei bambini che giocani con dei pezzi di legno, quegli altri che fanno un girotondo su una piazza di paese, quelle massaie sorridenti con dei vestitini a fiori, quelle facce contadine o operaie oggi non ci sono più. E non credo che quando qualcuno guarderà, nel 2070, delle foto scattate oggi potrà avere lo stesso tipo di reazione.
La prima domanda è più intrigante. Se alcune foto sono chiaramente volute e pensate, altre sono scatti rapidi e istintivi. Ci sono dei piedi tagliati, qualche inquadratura discutibile, qualche dettaglio fuori posto, tutte cose che, se le vedessi su una mia foto, me la farebbero scartare. Eppure sono foto meravigliose, vive, di una semplicità estrema. L'impressione, guardandole, è che il fotografo non avesse alcun ego, non cercasse di difendere alcuna poetica, alcun modo di fotografare. L'impressione è che fosse solo lui, con tutto sé stesso, senza mediazioni, né inutili riflessioni. Se non fosse per la qualità dell'esposizione e della stampa, potrebbero quasi sembrare foto amatoriali. Alcune — poche — sono “ad effetto”, nel senso che hanno saputo cogliere un momento buffo, o sghembo, o drammatico. Ma la maggior parte sono così normali da essere disarmanti. Semplici scatti di vita quotidiana, scatti senza pretese, che sembrano essere stati fatti più per ricordarsi di qualcosa che per documentare qualcosa. Scatti, soprattutto, di profonda e vera modestia. Scatti ammirevoli.
Un paio di giorni fa il mio amico Alessandro ha pubblicato un post su Terry Richardson (qui), che io ho commentato in maniera un po' lapidaria, scrivendo che “le foto di Terry Richardson sono insignificanti puzzette”. Lapidario, ma elegante, come sempre...
Sarà anche facile contrapporre l'umanità di un Robert Doisneau al vacuo glamour di un Terry Richardson, ma mi sembra comunque importante farlo, perché ci permette di parlare di fotografia allargando il discorso a qualcosa di più importante, cioè al nostro modo, quello di ognuno di noi, di essere uomini e donne su questa Terra. Inevitabilmente mi torna in mente una citazione del grande Kurt Vonnegut, che diceva che “un difetto della natura umana è che tutti vogliono costruire e nessuno vuole occuparsi della manutenzione”. Doisneau si occupava proprio di quello, della manutenzione, della cosa che più manca al mondo. Sono anni che cerco di fare un teatro della manutenzione e che gli spettacoli e i film e i libri e le musiche che mi piacciono di più sono anche loro fatti per la manutenzione del mondo. Trovo che ormai, con la libertà assoluta che tutti accettiamo di concedere all'artista che crea qualcosa, quello che ci troviamo poi sotto gli occhi o nelle orecchie sia molto spesso più l'artista che la sua creatura. L'artista con le sue pippe mentali, le sue arzigogolate quanto fatue spiegazioni, la sua arroganza e la sua condiscendenza verso chi non lo apprezza. Ormai il mondo dell'arte, di cui la fotografia fa parte, è una continua e folle corsa verso la novità a tutti i costi, è un mondo autoreferenziale nel quale l'abilità a vendere è diventata molto più importante dell'abilità a fare. Non ho cifre e statistiche da paragonare, ma sono sicuro che mai nella storia del mondo ci siano stati tanti artisti quanti ce ne sono oggi, anche se a gran parte di loro mi guardo bene dall'attribuire il titolo di artista.
C'è, nelle foto di Doisneau, una manualità straordinaria. Non parlo di manualità in senso nostalgico, non parlo di artigianato come opposto a tecniche più elaborate: anche qualcuno che lavora al computer può avere una sua manualità. Parlo di un approccio all'arte nel quale lo strumento usato, che si tratti di un pennello, di una penna, di un martello, di una macchina fotografica o di una tavola grafica, resta uno strumento, non sovrasta il risultato. Parlo soprattutto di artisti che fanno ciò che fanno per essere utili, per servire a qualcosa e a qualcuno, per aiutarci, ognuno di noi, a capire meglio il mondo e la nostra condizione umana. Credo che l'arte che si abbassi a diventare qualcosa di meno di questo sia non solo inutile, ma deleteria, in quanto oggettivamente celebrativa di un sistema mercantile basato unicamente sul profitto e la speculazione.
Doisneau ha detto: “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. Se questa frase vi sembra sdolcinata, allora correte pure a comprarvi un libro di Terry Richardson, andate a vedere una mostra di Jeff Koons, leggete un libro di Michel Houellebecq, guardatevi un film di Quentin Tarantino, ascoltatevi l'integrale di Madonna.
Io vado a farmi un caffé.

giovedì 21 marzo 2013

Un po' di musica

The Incredible String Band

Ieri eravamo tre in furgone, Elena, Silvia e io. Un camionista si è addormentato al volante all'uscita del tunnel del Monte Bianco ed è andato a incastrarsi nei gabbiotti del pedaggio. Risultato: tre ore e mezza di attesa. Per carità, spero che il camionista non si sia fatto male, MA NON AVREBBE POTUTO ANDARE A INCASTRARSI IN UN ALTRO POSTOOOOO???!!!
Quando abbiamo potuto rimetterci in moto Elena ha tirato fuori un CD dei Duran Duran. Una tortura. Un incubo. Un'informe melassa anni '80. Uno schifo.
Allora ho deciso di vendicarmi. Ho lasciato finire il pezzo, ho sfoderato l'IPod, l'ho connesso con l'apposito cavetto all'autoradio, e VLAM!, ecco l'Incredible String Band in tutta la sua gloria. Puro nettare hippy. Goduria peace and love. Estasi garantita 100% biologica.
Le due ragazze hanno sorriso, tanto per non ridermi in faccia, a me, l'anzianotto. Ma forse il seme ero riuscito a piantarlo lo stesso dentro quei cervellini bacati da da troppa Disco music. Chissà...
Lo so, l'Incredible String Band è un gruppo quasi sconosciuto in Italia. E allora ecco giunto anche per te il momento di scoprirlo. Qui http://www.youtube.com/watch?v=DgQuVeMOyAk potrai ascoltare un album intero. Ma attento! È taaanta robbba! Poi, se vuoi, ridi pure, o chiamami vecchio figlio dei fiori rincitrullito. Peggio per te.
Intanto la macchina dei ricordi si era messa in moto e io mi sono messo a raccontare.
L'ISB (troppo lungo da scrivere ogni volta) me l'aveva fatta scoprire nel '71, a Toronto, il mio amico Stephen Martineau, forse lo stesso giorno che mi fece ascoltare Facing you di Keith Jarret. Stephen era figlio di un pastore scozzese (un presbiteriano, non un cane, bestia!). Volendo sfuggire all'influenza paterna si era arruolato nella gloriosa RAF ed era diventato pilota di caccia, con base a Singapore. Stancatosi però anche dei caccia, lasciò l'aviazione, sposò una newyorkese di nome Barbara, e partì con lei per il Canada. A Toronto entrambi divennero professori, lei a Scarborough College, lui alla University of Toronto. Mentre Stephen si occupava della mia educazione musicale, Barbara mi parlava di femminismo e mi obbligava, praticamente con la forza, a leggere Gertrude Stein, che mi misi ad amare almeno quanto avevo amato Walter Scott la prima volta che avevo letto Ivanhoe. Pensa che qualche anno dopo avrei scelto proprio Gertrude come secondo nome da dare a mia figlia, che da allora nutre nei miei confronti un rancore indomabile.
Quando mi sposai per la prima volta, secoli fai, ricevetti da Stephen e Barbara un misteriosissimo telegramma che diceva “Mazel tov – Lang may yer lum reek – Barbara and Stephen”. Se la comprensione di Mazel tov fu facilitata dal sapere che Barbara era ebrea, mi ci volle molto più tempo per scoprire che lang may yer lum reek è un classico augurio in lingua scozzese che significa 'possa il tuo camino bruciare per molti anni'. Il che non fu poi il caso, ma non importa.
Comunque sia, rendendomi conto che fare ascoltare alle due fanciulle l'Incredible String Band era stato un colpo basso, ho smanettato sull'IPod fino a trovare You can't always get what you want, degli Stones (http://www.youtube.com/watch?v=OagFIQMs1tw). Approvazione generale. E ricordi a gogò.
Parigi, forse l'inverno del '69. Ci ritroviamo con qualche amico a casa di Tanith, vicino all'École Militaire. Tanith era una filiforme anglo-italo-francese, bella e intrigante come Jane Birkin in Blow up di Antonioni (peraltro pessimo film, se rivisto oggi). Il giradischi fa il suo dovere e gli amici pure, visto che numerose sigarette di quelle che fanno ridere circolano da una mano all'altra. Dopo un po' mi rendo conto di essere molto più di là che di qua. Mi avvicino al giradischi, afferro le cuffie, le collego al marchingegno, mi siedo per terra e me le piazzo sulle orecchie. Ed è proprio allora, proprio in quell'istante lì che incomincia You can't always get what you want. Cosa posso dire? Che ancora oggi, più di 42 anni dopo, mi ricordo perfettamente che: 1) il coro dei bambini all'inizio va avanti come minimo per otto ore e, 2), che quel finalone modello Grande porta di Kiev di Musorgskij nella versione orchestrata da Ravel ne dura almeno dodici. Lo so che sui CD di oggi non è più vero, non sono mica stupido. Ma so perfettamente che almeno su quell'LP là, quel giorno là, a casa di Tanith, vicino all'École Militaire tutta lanzone durò almeno diciannove ore (o ventuno, non sono sicuro). Lo so perché c'ero. Lo so perché quando ho riaperto gli occhi alla fine del pezzo e mi sono accorto che tutti mi stavano guardando in silenzio, Michel ha detto wow! E so anche che raramente wow! ha avuto più ragione di risuonare in questo basso mondo.
L'anno dopo ho abitato qualche mese a Parigi, dall'altra parte dell'École Militaire, a casa di Ariane, un'infermiera, in una viuzza che si chiamava Passage de la vierge. Se conoscete un nome di viuzza più bello di quello, fatemelo pure sapere. Ma non credo che esista.

domenica 17 marzo 2013

Ricordi beat

Bob Dylan e Allen Ginsberg sulla tomba di Jack Kerouac
 
Ieri sera ho visto un vecchio e bel documentario su Jack Kerouac e i poeti della beat generation. A più riprese si sentiva la voce fuori campo di Kerouac che leggeva grandi stralci di Sulla strada e del Dottor Sax, come lunghe melopee visionarie. Si vedevano Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Gary Snyder, Neal Cassady. Guardando quelle immagini e sentendo quelle parole mi sono tornati alla mente gli anni della mia adolescenza.
Tutto incominciò con il mio amico Paolo, col quale ci ritrovavamo ogni estate a Bellaria. Paolo era più vecchio di me, più navigato, più colto. Un pomeriggio piovoso dell'estate 1964 — avevo 14 anni — mi fece ascoltare il disco che avrebbe cambiato la mia vita. Si trattava di The freewheelin' Bob Dylan, quello con Blowin' in the wind, A hard rain's a-gonna fall, Masters of war. Il disco era rimasto un intero pomeriggio sul lunotto della Fiat 600 di suo padre parcheggiata in pieno sole e si era ondulato come una pizza posata su un terreno sassoso. La voce nasale di Dylan e il suo fraseggio totalmente incomprensibile erano quindi arricchiti da accelerazioni e rallentamenti dovuti a quell'ondulazione, che ne facevano qualcosa di ancora più esoterico. Fu una folgorazione.
Qualche mese dopo, a Milano, mi comprai Another side of Bob Dylan (All I really want to do, It ain't me,babe, Chimes of freedom, ecc.). Sul retro di quell'album c'era un lungo testo di Dylan, in forma poetica, nel quale ad un certo punto appariva il nome di Allen Ginsberg. Andai in libreria e trovai un'antologia delle sue poesie, tradotte da Fernanda Piovano sotto il titolo Juke-box all'idrogeno. C'era Urlo, certamente la più importante, e c'era A Supermarket in California, che incominciava con “che pensieri ho su di te, Walt Whitman”. Me ne tornai in libreria (la Remainders books, nella galleria Vitorio Emanuele, a Milano) e trovai un libretto a poco prezzo, che conteneva degli stralci di Foglie d'erba.
È difficile immaginare oggi quanto quelle scoperte potessero sembrare magiche a un ragazzino di un quartiere periferico (la Comasina) degli anni '60. Il mio piccolo mondo fatto di formica e moplen, di Fiat 500, di registratori Geloso e di frullatori Girmi, improvvisamente si aprì su improbabili orizzonti. Orizzonti lontani, sì, ma che quelle letture rendevano possibili, pur sprofondandomi ancora di più in una solitudine sempre più pesante. Quante volte mi sono messo alla mia scrivania facendo finta di fare i compiti e rileggendo invece “Ho visto le migliori menti della mia generazione / distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche / trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa / hipster dal capo d'angelo ardenti per l'antico contatto celeste / con la dinamo stellata nel macchinario della notte, / che in miseria e stracci e occhi infossati / stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua / fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz / che mostravano il cervello al Cielo sotto la Elevated / e vedevano angeli Maomettani illuminati barcollanti su tetti di casermette / che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate bruciando denaro nella spazzatura / e ascoltando il Terrore attraverso il muro”!...
Oppure: “Canto me stesso, e celebro me stesso, / E ciò che assumo voi dovete assumere / Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene anche a voi. / Io ozio, ed esorto la mia anima, / Mi chino e indugio ad osservare un filo d'erba estivo”.
Avevo forse diciassette anni quando un pomeriggio, sempre in galleria, mi sono trovato davanti Allen Ginsberg che camminava, a testa bassa. Il cuore mi è saltato in gola e sono entrato in fibrillazione come se avessi visto la Madonna. Mi sono detto “devo parlargli, devo dirgli qualcosa!” e mi sono messo a seguirlo, tremante, senza sapere cosa fare, non osando stargli troppo addosso, ma con la paura di lasciarmelo scappare. Abbiamo attraversato piazza della Scala, lui davanti, sempre a testa bassa, io dietro, sempre in agitazione. Poi lui ha imboccato via Manzoni... ed è sparito. Sono rimasto immobile un istante, incredulo, disperato. Mi sono infilato nel primo portone, quello dove doveva essere entrato, ma era già troppo tardi. Ginsberg era stato solo una visione fugace, un attimo di nirvana, come avrebbe detto lui, dissolto nel nulla.
Sette anni dopo ero a San José, California, a casa di Fred e Julie Iltis, due amici che avevo conosciuto a Vancouver. Fred era un cecoslovacco la cui famiglia era emigrata negli Stati Uniti poco prima dell'invasione nazista. Insegnava entomologia all'università, ma era anche un meraviglioso fotografo, amico di Otto Hagel. Gli feci leggere una serie di mie poesie, che avevo scritto in inglese e che erano dei ritratti di persone e di città, raggruppati sotto il titolo Very here and now. Lui le lesse e, senza nemmeno dirmi niente, cercò sulla guida telefonica di San Francisco il numero della City Light Books, la storica libreria di Ferlinghetti, e mi prese un appuntamento col poeta. Per me, incontrare Ferlinghetti era un po' come incontrare... la Madonna, tanto per ripetermi.
Andai a San Francisco. Ferlinghetti abitava in un appartamentino sopra la libreria. Suonai alla porta, ed eccomi lì, seduto a un tavolino scrostato, davanti non solo a Ferlinghetti, ma anche a Ginsberg, che ad un certo punto se ne andò in cucina a preparere una frittata. Mi chiese se ne volessi anch'io, ma come avrei fatto a mandar giù qualcosa quando avevo lo stomaco bloccato come il mare intorno a Cuba durante la crisi dei missili del '62?
Non so quanto durò quell'appuntamento, né cosa ci raccontammo, quei due mostri sacri e io. Lasciai a Ferlinghetti il mio testo e me ne andai via, felice di quei momenti di insperato privilegio.
Ebbi occasione di tornare a San Francisco solo una dozzina d'anni dopo. Chiamai Fred e Julie e andai a San José a trovarli. Con mia grande sorpresa, Fred tirò fuori una busta con su il mio nome e il suo indirizzo. Mi disse che la lettera era arrivata molti anni prima e che, non sapendo dove spedirmela, l'aveva conservata. L'aprii e all'interno trovai un cartoncino di 14 centimetri x 8, che ho qui, accanto a me, mentre scrivo. Sotto il logo della City Light Books, 1562 Grant st., San Francisco 94133, c'era qualche frase scritta al pennarello nero: “11 aprile 75. Caro Schuster, ci ho messo troppo tempo, ma ho voluto leggere una seconda volta e spero non ti dispiacerà se ti dirò che nell'insieme questo è un gruppo molto interessante di ritratti che dovresti mettere in prosa, come una specie di romanzo. O piuttosto in forma di prosa. Ho riletto il primo pezzo immaginandomelo come prosa e mi è sembrato più efficace. Grazie di avermeli fatti leggere, anche se non potremo pubblicarli. E scusa se ci ho messo tanto tempo. Tuo, Lawrence Ferlinghetti”.
Ieri sera, guardando il documentario, quei lontani ricordi sono risaliti alla superficie e ho avuto l'impressione di ritrovarne il sapore, i colori e gli odori. E mi chiedo se sarebbe ancora possibile per un ragazzo di oggi, con internet, le email, i cellulari e tutto il resto, vivere qualcosa di altrettanto intenso e inatteso, qualcosa che potrebbe dargli la stessa mia impressione di allora, quella dirompente e luminosa impressione di sentirsi improvvisamente meno solo in un mondo dove qualcosa era dopo tutto possibile.

venerdì 15 marzo 2013

Un'insana passione

Non so nemmeno io più bene come la cosa sia incominciata, ma qualche mese fa mi sono lasciato sopraffare da un'insana passione cruciverbistica. Alla sera, prima di addormentarmi, non leggo più: una matita nella mano destra, una gomma nella sinistra, cerco disperatamente di ricordare quale sia stato il luogo di nascita di Einstein (Ulma), chi abbia scritto l'Elegia, sive de miseria (Arrigo da Settimello, e ci lo conosce?), nonché di indovinare, attraverso improbabili incroci, quale sia la “salsa per la cacciagione” (io sono vegetariano!) con una a al terzo posto, una d al quinto e una f al sesto (chaudfroid). Il tutto stramaledicendo Alessandro Bartezzaghi, condirettore della Settimana enigmistica e figlio di quel Piero che sentivo regolarmente stramaledire cinquant'anni fa da mio padre e mia madre. 
Sono un cruciverbista mediocre. Intanto, più di trent'annni di vita all'estero mi precludono ogni possibilità di indovinare i nomi di cantanti, presentatori televisivi e soubrette di ogni genere e tipo; idem per i titoli dei film, che spesso cambiano radicalmente da una lingua all'altra. Poi, non avendo frequentato né liceo, né università, sono paralizzato di fronte all'imperiosa necessità di trovare nomi di filosofi minori, oscuri scrittori e movimenti letterari marginali dei quali non ho mai sentito la minima mancanza. Ho sempre vissuto benissimo ignorando il nome di Eubulide di Mileto e di Pompeo Trogo, e pure l'esistenza del Crepuscolarismo! 
Ci sono poi stati i miei trenta e passa anni all'estero. Credi davvero che uno passa tutto quel tempo in Francia e altrove possa sapere che gli scaratafacci sono dei “quaderni malridotti” e che gli abitanti di Assisi sono assisiati, con la t?
Questo per quel che riguarda Bartezzaghi. C'è poi l'ancora più perfido Malaguti, che pretenderebbe io sapessi che l'”arte del gestire parlando” è la chironomia, che il “regolo del goniometro” si chiama alidada e che nella Carmen c'è un contrabbandiere che porta l'improbabile nome di Dancairo. A queste risposte certe volte ci arrivo, lettera dopo lettera, attraverso la soluzione delle parole che le incrociano. Ma anche in questi casi non posso evitare di aspettare il venerdì seguente (così lontano...!) per andare a verificare l'esattezza delle mie deduzioni sulla penultima pagina della Settimana enigmistica seguente. 
Pare che il diabolico inventore delle parole crociate sia stato un giornalista, nonché violinista dell'orchestra sinfonica di Pittsburgh, tale Arthur Wynne, nativo di Liverpool. Ecco il suo primo cruciverba, del 21 dicembre 1913:
Fill in the small squares with words which agree with the following definitions:
2-3. What bargain hunters enjoy.6-22.What we all should be.
4-5. A written acknowledgment.4-26. A day dream.
6-7. Such and nothing more.2-11. A talon.
10-11. A bird.19-28. A pigeon.
14-15. Opposed to less.F-7. Part of your head.
18-19. What this puzzle is.23-30. A river in Russia.
22-23. An animal of prey.1-32. To govern.
26-27. The close of a day.33-34. An aromatic plant.
28-29. To elude.N-8. A fist.
30-31. The plural of is.24-31. To agree with.
8-9. To cultivate.3-12. Part of a ship.
12-13. A bar of wood or iron.20-29. One.
16-17. What artists learn to do.5-27. Exchanging.
20-21. Fastened.9-25. To sink in mud.
24-25. Found on the seashore.13-21. A boy.
10-18. The fibre of the gomuti palm.

Ci ho passato sopra un bel po' di tempo. Ma quel che mi ha colpito è stata la malignità della definizione 18-19: what this crossword is (cos'è questo cruciverba), la cui soluzione è hard (difficile), il che dà subito a vedere la dose di sadismo e di perversità necessaria a creare parole crociate. 
Tra le maledizioni che lancio ad ogni parola che non trovo ce n'è sempre una per il Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini, Conte di Sant'Andrea, fondatore e direttore della Settimana Enigmistica per 41 anni (vedi l'ultima pagina della rivista).
Questo Sisini, mi spiega il sito http://www.telesanterno.com/23-gennaio-1932-un-nobile-sardo-inventa-la-settimana-enigmistica-0123.html, era un nobile romangio (la Romangia è una regione storica della Sardegna nordoccidentale, bestia!), figlio del fondatore del Rotary club della Sardegna, nonché “importatore e promotore dei più aggiornati mezzi della meccanica agraria (a Cagliari aprì ben tre negozi di macchine agricole)”. Ma perché non ha continuato a vendere macchine agricole?! Io adesso continuerei a leggere romanzi e saggi, invece di autoumiliarmi di fronte a quella che mi appare improvvisamente come la mia ignoranza abissale.
E invece no, si è anche riprodotto, visto che oggi la rivista è diretta da un altro Sisini, non so se figlio o nipote del primo, tale Francesco Baggi Sisini, che il Corriere della sera del 15 luglio 2008 definiva “cattolicissimo imprenditore che ha creato, accanto a una struttura societaria 'in chiaro', un arcipelago di holding estere dove è custodita buona parte del patrimonio” familiare. (http://archiviostorico.corriere.it/2008/luglio/15/Settimana_enigmistica_polizze_finanza_passioni_co_9_080715105.shtml). Maledetti tutti i cattolicissimi imprenditori che creano holding dove è custodita buona parte dei loro patrimoni familiari!!!
Se almeno fossi rimasto fedele alle mie abitudini infantili! A quei tempi, quando in televisione c'erano Rintintin e il Mago Zurlì, La Settimana Enigmistica me la portavo in bagno, oasi di pace. Ma non mi sognavo nemmeno di provare le parole crociate. Leggevo le barzellette (quelle con i disegni, non quelle di Risate a denti stretti, che non mi facevano ridere). Finite le barzellette con quella muta e a striscia dell'ultima pagina, tornavo lentamente indietro, leggendo Strano, ma vero! (un capolavoro), Forse non tutti sanno che... (anche questo niente male) e le "Spigolature", che avevano però il difetto di non essere illustrate. Non che tralasciassi Leggendo qua e là...: è semplicemente che quella rubrica non c'era ancora. Dell'edipeo enciclopedico mi intimoriva il titolo, e quindi non mi ci avventuravo. Tutt'al più, una volta terminati i miei bisogni, andavo a recuperare una matita per annerire le parti appuntate di Che cosa apparirà? e unire i punti numerati della pista cifrata. Tutto qua. E stavo benissimo! Cosa mi è venuto in mente di attaccarmi alle parole crociate?
Ho anche una confessione da fare: confesso che un paio di volte, in occasione di viaggi in treno, ho comperato un'altra rivista. Sì, ho tradito il Conte con Il corriere enigmistico, che è praticamente una fotocopia della più illustre Settimana, con la differenza che le soluzioni ai giochi e cruciverba li trovi nel numero stesso, senza dover aspettare una settimana. Ho voluto fare il furbo, ma l'ho pagata cara. Credevo che avere le soluzioni nello stesso numero fosse meglio, e invece no. Appena ti manca una parola, comincia a venirti la tentazione di andarla a vedere nelle ultime pagine. Allora ti dici “no, aspetta, magari la trovi dopo”. È un po' come quando sai che hai già fumato troppe sigarette e ti viene voglia di fumarne un'altra. Cerchi di resistere, magari resisti anche per un po', ma poi, che tu abbia resistito 5 o 50 minuti, quando te la fumi (perché te la fumi, ovviamente) ti senti comunque sconfitto, privo di volontà, debole, incapace, umiliato. Una volta che sei andato a verificare una parola non ti serve più a niente resistere strenuamente, come Leonida alle Termopili, prima di verificarne un'altra: anche se ce la fai (ed è dura...), lo smacco della prima sconfitta resta intatto e non è minimamente scalfito da questa nuova prova di coraggio.
Insomma, i cruciverba, che dovrebbero essere un gioco e che potrebbero magari rassicurarti sullo stato delle tue conoscenze, sono in realtà più simili a dei riti di autoflagellazione da Settimana Santa che a dei piaceri enigmistici. Che sia per questo che già godo all'idea che stasera potrò attaccare La Settimana enigmistica n° 4222, anno 82, Euro 1,50 (in Italia)?
Il primo numero, 23 gennaio 1932

giovedì 14 marzo 2013

Francesco

Mi sa che ho sbagliato foto...

… E Francesco fu. E tutti a rallegrarsi dell'omaggio al poverello di Assisi.
Ma se dite Silvio a un italiano è poco probabile che lui pensi per prima cosa a Silvio Pellico o Silvio Orlando; se dite Armstrong a un astronauta è poco probabile che lui pensi per primo al dopato del Tour de France; se dite Uma a un critico cinematografico è poco probabile che lui pensi alla moglie del dio Shiva. Allo stesso modo, se dite Francesco a un gesuita mi sembra molto più probabile che lui pensi prima a Francesco Saverio, al secolo Francisco de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier, uno dei fondatori, insieme a Ignazio di Loyola, della Compagnia di Gesù, che a San Francesco d'Assisi, al secolo Giovanni Francesco Bernardone di Pietro.
Francesco Saverio era un missionario gesuita, attivo soprattutto in Oriente (India, Indonesia, Giappone e Cina). Come la maggior parte dei missionari dei suoi tempi, il '500, era sua abitudine imporre ai convertiti di prendere un nome cristiano e di adottare vestiti occidentali. È sepolto a Goa, dentro una tomba che fu regalata da Ferdinando II dei Medici, una specie di grosso panettone barocco in marmo di Carrara e argento massiccio. Sepolto... in parte, visto che 62 anni dopo la sua morte degli inviati del Vaticano pensarono bene di staccargli un braccio per portarlo a Roma, dove è tuttora conservato nella Chiesa del Gesù. Altre asportazioni seguirono negli anni successivi, finché i gesuiti locali, temendo di ritrovarsi con una tomba vuota, misero fine al sinistro traffico.
I gesuiti hanno la reputazione di essere dei grandi intellettuali e dei politici di prim'ordine. Pur predicando l'umiltà e la povertà, si sono distinti nella storia per il loro gusto per la ricchezza e il potere (soprattutto in Giappone e in Portogallo, poi in Spagna), cosa che spinse re Carlo III a cacciarli dal Paese nel 1767. L'esempio di Re Carlo fu poi seguito da Ferdinando IV, re di Napoli, e dal Duca Ferdinando di Parma. Finché Papa Clemente XIV soppresse l'ordine nel 1773. Ma nel 1801 Papa Pio VII lo restaurò.
Anni fa mi raccontarono una barzelletta in Francia (fu un Domenicano a raccontarmela): Due frati si incontrano a Parigi, nella place de la Concorde. Uno è un Domenicano, l'altro è un Gesuita. Il Gesuita chiede al Domenicano: “Fratello, potreste indicarmi come arrivare all'Arc de Triomphe?” “Non lo troverete mai, fratello, gli risponde il Domenicano, dovreste andare sempre diritto”. Questo per sintetizzare la leggendaria tortuosità mentale dei Gesuiti.
Il Preposito Generale della Compagnia di Gesù, cioè il capo dei Gesuiti, è comunemente definito “il Papa nero”, in riferimento alla potenza dell'Ordine e alla sua influenza sulla vita della cristianità.
Mo' ecco qua Papa Francesco. In occasione della sua prima apparizione pubblica abbiamo visto un uomo apparentemente semplice, spiritoso, nonché “a forma di papa”, come ha giudiziosamente commentato mia moglie. Ma già dai giornali di questa mattina appaiono altri aspetti dell'ex-Cardinale Bertoglio. Un uomo semplice, questo sì, che non ama i fasti (buona fortuna in Vaticano!), che tifa per il San Lorenzo, suadra che ha vinto 13 volte il campionato di calcio argentino, che sembra attento alle preoccupazioni degli umili. Ma anche un uomo dogmaticamente molto rigido, opposto alla pillola, all'aborto (definito “contrario al disegno di Dio”), alle unioni gay (“una mossa del diavolo”) e ancor più all'adozione da parte di coppie gay. Sulle donne sembra avere chiare opinioni: "Le donne sono naturalmente inadatte per compiti politici. L'ordine naturale ed i fatti ci insegnano che l'uomo è un uomo politico per eccellenza, le Scritture ci mostrano che le donne da sempre supportano il pensare e il creare dell'uomo, ma niente più di questo" (http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/articoli/1085940/papa-francesco-le-donne-inette-per-la-polita.shtml). Da bravo argentino, pensa che le isole Falkland appartengano all'Argentina, il che non è sorprendente. Ma, ahimé, sembra che questo non sia stato il suo solo punto di accordo con i militari che diressero il Paese dal '76 all'83, trasformando 30.000 cittadini in desaparecidos. Secondo Horatio Verbitsky, scrittore e giornalista, membro di Human Rights Watch, nonché collaboratore del New York Times, del Wall Street Journal e di El País, il comportamento del Cardinale Bergoglio e di tutta la Chiesa argentina durante gli anni della dittatura fu più che ambiguo (ampie inormazioni, in spagnolo, qui: http://www.taringa.net/posts/noticias/5189962/Bergoglio-Dictadura-e-Iglesia---Por-Verbitsky.html).
Secondo l'avvocato Emilio Fermin Mignone, fondatore del Centro di Studi Legali e Sociale, nonché padre di una desaparecida, Bergoglio sarebbe stato un esempio della sinistra complicità ecclesiastica con i militari che si incaricarono di compiere lo sporco compito di lavare il cortile interno della Chiesa con la accondiscendenza dei prelati”. 
In particolare Bergoglio è accusato di aver favorito l'arresto di due gesuiti, Orlando Yorio e Francisco Jalics, arrestati una settimana dopo che il Cardinale li aveva espulsi dalla Compagnia di Gesù, dando così un chiaro segnale ai militari della Giunta.
Non voglio entrare qui in troppi dettagli, né tirare conclusioni affrettate. Numerose informazioni sono disponibili su vari siti argentini.
Vedremo che tipo di papa sarà questo Francesco. Probabilmente e almeno in parte, sarà una nuova versione di Papa Wojtyla, che coniugava un'apparente umanità alla Giovanni XXIII con un rigore dogmatico e una “prudenza” (chiamiamola così...) politica alla Pio XII. Mi pare comunque poco probabile che la Chiesa cattolica si sia dotata di un pontefice deciso a rompere con le vecchie tradizioni di potere e di intrigo che la caratterizzano. Anche perché la cosa sarebbe molto strana.


martedì 12 marzo 2013

Consigli al prossimo papa

 
Oggi i cardinali di meno di ottant'anni si riuniscono nella Cappella Sistina per eleggere il nuovo papa. Dire che sono divorato dall'attesa sarebbe certamente eccessivo, anche se ammetto una certa curiosità.
Naturalmente assisteremo al solito psicodramma del colore della fumata: è bianca o è nera? Non si capisce mai bene. Questa volta ci dicono che un nuovo e moderno sistema, consistente nel bruciare particolari agenti chimici, ci permetterà di non avere dubbi. Vedremo. Dopotutto, è possibile che secoli di studio e ricerca finiscano col darci risultati soddisfacenti, almeno quanto quelli che si ottenevano in passato bruciando paglia o carta.
Ma l'attesa vera è quella sul nome del futuro papa. La tradizione va avanti dall'anno 533, quando fu eletto tale Mercurio di Proietto. Siccome ritrovarsi con un papa che portava il nome di un dio pagano sarebbe stato un po' imbarazzante per Santa Romana Chiesa, il neo-eletto si scelse il cristianissimo nome di Giovanni, fino ad allora usato una sola volta, dieci anni prima, da un senese che fu poi arrestato da Teodorico, re ostrogoto, e morì in prigione. Ne approfitto per notare che a quei tempi, cioè tra l'agosto 523 e il marzo 537, furono eletti ben sette papi in meno di nove anni. Una pacchia per i giornalisti.
Ma torniamo ai nomi.
Ci ricordiamo tutti della disarmante mancanza di originalità di Albino Luciani, che si scelse, primo nella storia, un doppio nome, composto da quelli dei due che l'avevano preceduto. Almeno Karol Wojtyla non fece che ispirarsi a dieci suoi predecessori, che avevano assunto l'esatto nome di chi li aveva preceduti, e la cui indispensabile lista ti propongo qui: Giovanni VII, Gregorio III, Benedetto VII, Giovanni XV, Giovanni XVIII, Clemente X, Clemente XIV, Pio VII e Pio XII. 
Notiamo anche che, una volta stabilita la tradizione del cambiamento di nome, due neo eletti si dissero semplicemente “e che me ne importa a me?” e si tennero il nome che gli avevano affibbiato babbo e mamma: Adriano VI (al secolo Adriaan Florenszoon Boeyens Dedel, nativo di Utrecht) e Marcello II (al secolo Marcello Cervini degli Spannocchi, di Montefano, nelle Marche).
L'altro giorno non so quale giornalista ha scritto, non si sa bene sulla base di quali informazioni, che c'è la possibilità che il prossimo passeggero di papamobile assuma il nome di Francesco, mai usato fino ad oggi. Anche qui, vedremo.
A me, con tutto il rispetto per il poverello di Assisi, piacerebbe di più che, quando il cardinale protodiacono uscirà sul balcone per pronunciare la famosa formula che incomincia con Annuntio vobis gaudium magnum e termina con qui sibi nomen imposuit... annunciasse poi un bel nome di quelli che uno non si aspetta. Non dico un nome mai usato, ma uno di quelli che “fanno papa” almeno quanto Neri fa toscano, Gavino sardo e Pier Silvio figlio di. Che ne so?, Aniceto, per esempio, o Ponziano.
Tra i miei preferiti, tutti usati in precedenza una volta sola (ed è un peccato), ci sono: Adeodato, Agatone (buono, virtuoso), Aniceto (invincibile), Antero (?), Calo (uno dei figli di Perdice, nipote di Dedalo), Cleto (eletto), Conone (generale ateniese), Dono, Eleuterio (libero), Eutichiano (?), Evaristo (assai prestante), Fabiano (coltivatore di fave, che magari per un papa non è molto bello...), Formoso (da scegliersi solo se somaticamente corretto), Igino (sano), Lando (diminutivo di Orlando, o Landolfo, o Gerlando, o Rolando), Liberio, (variante di Libero), Lino (viene dal tessuto), Milziade (terra rossa), Ormisda (re persiano), Ponziano (quinto), Sabiniano (appartenente a quel popolo che viveva tra le attuali provincie di Rieti e dell'Aquila), Simmaco (alleato), Simplicio (puro d'animo), Siricio (?), Sisinnio (ardente di grazia), Sotero (salvatore), Telesforo (colui che porta a buon fine, e non portatore di TV, bestia!), Vitaliano (che abbia lunga vita), Zefirino (dal vento primaverile), Zosimo (vitale). 
Approfittando del fatto di portare un cognome cardinalesco (Alfredo Ildefonso Schuster fu cardinale di Milano dal 1929 al 1954) mi permetterei di sconsigliare al prossimo calzatore di Prada rosse di scegliersi un nome mai usato prima, o bizzarro, che potrebbero dare l'impressione di un'eccessiva ricerca di originalità. Penso in particolare a nomi come Ameglio, Ampellio, Aulo, Brunero, Delvandolo, Diocle, Edolo, Elino, Espartero, Frondiano, Galdino, Gradenico, Malito, Mietrio, Profilio, Volio, o Zelo. 
Ma questi nomi te li sei inventati!, mi dirai tu, lettore incredulo. E invece no. Li ho semplicemente trovati sul sito del comune di Pioraco, provincia di Macerata. Sì, io vado sul sito di Pioraco, provincia di Macerata. Embè? 
Se ci fossi andato pure tu non avrei bisogno di spiegarti che “Pioraco è conosciuto anche come il paese dei nomi strani. La spiegazione di tale fenomeno risale al periodo in cui a Pioraco arrivavano enormi quantità di libri destinati al macero per la fabbricazione della carta. Molti di questi libri venivano letti, conservati e costituivano una fonte inesauribile di nuovi termini, di conoscenza ……e di nomi da mettere ai propri figli”.
E ora, soddisfatto di questo mio fondamentale contributo all'elezione del nuovo pontefice, me ne vado a fare la spesa.

venerdì 8 marzo 2013

La tristezza del ramo che si secca


La penisola del papagayo, Costa Rica

Ditemi che è uno scherzo.
Fino a ieri non sapevo chi fosse Walter Vezzoli, e mi andava bene così. Oggi so che è un amico e stretto collaboratore di Beppe Grillo. E vabbè.
Senonché L'Espresso ha pubblicato un articolo che parla di questo Vezzoli e dei suoi presunti affari in Costa Rica. Al che Vezzoli risponde in un'intervista al Fatto quotidiano.
Fin qui niente di anormale: che un giornale o una rivista indaghino su uno stretto collaboratore di un importante leader politico non è cosa che mi scandalizzi.
Trovo più, come dire?..., disarmanti le dichiarazioni di Vezzoli al Fatto.
Per esempio: quando L'Espresso sostiene che il Costa Rica è un paradiso fiscale, Vezzoli risponde che non è più vero dal 2011, omettendo di indicare che lui ci abitava prima di quella data.
Ma là dove le cose assumono un aspetto di alta quanto involontaria poeticità è sul sito di una delle società di Vezzoli, EcoFeudo, che presenta un progetto (“un sogno”, dice lui) per metà affare milionario e per metà incubo settario.
Il progetto comprende la costruzione di un villaggio su un terreno sopraelevato che domina il golfo del papagayo, il che “gli conferisce tutti i benefici delle energie positive che provengono dalla baia”. Si vede che le energie che arrivano dall'entroterra non sono così positive, visto che l'intero villaggio avrà bisogno di essere “circoscritto da mura in pietra ed equipaggiato con un sofisticato sistema d'allarme a raggi infrarossi”. Certo, la sicurezza sarà “tutelata anche dalla perfetta armonia di convivenza con il 'pueblo' locale”, però un bel muro e un po' di raggi infrarossi sono sempre meglio dell'armonia di convivenza. E comunque, a scanso di equivoci, “ogni abitazione sarà dotata, grazie alla struttura geologica del terreno, di bunker antiatomico fornito di particolari filtri depuratori progettati per difendersi da contaminazioni chimiche, biologiche e batteriologiche”. Ditelo pure a Kim Jon-un: se alla Corea del Nord venisse da buttare bombe atomiche sul Costa Rica, a quelli di EcoFeudo non gli farà un baffo.
A partire da questo simpatico villaggio ecosostenibile, protetto da mura in pietra e da sofisticati sistemi a raggi infrarossi, nonché equipaggaiato con rifugi antiatomici, si potranno vivere numerose avventure, tra le quali (giura di non ridere): “rafting, canyoning, kayaking, rappelling, canopy, tarzan swing, horse riding, mountain bike, rally in adv, bungee jumping, deltaplano”. Non si sa bene come mai 'deltaplano' sia in italiano, quando un bel hand gliding ci sarebbe stato così bene.
Ma non solo: “a soli 15 minuti dal nostro ecovillaggio” uno potrà trovare tutto un vasto repertorio di luoghi ecologicamente impeccabili, come “ristoranti, pizzerie, locali dove gustare drink, vivere il rito dell'aperitivo (sic, ndr) e godere di indimenticabili tramonti, cinema, sale da ballo e discoteche”. Insomma, se ti va di spendere un cacazillione di euro per comprarti casa in Costa Rica, poi stai tranquillo, puoi vivere come a Rimini d'estate.
Tanto più che l'ecovillaggio avrà una sua filosofia, perfettamente spiegata in questo nobile incitamento: “ama la nuvola, il cane, il libro, ma soprattutto ama l'uomo. Senti la tristezza del ramo che si secca”. È vero, anch'io mi sono sempre sentito molto turbato dalla tristeza del ramo che si secca. E oltre tutto mi è anche capitato di non amare una nuvola.
E pensare che per migliorare il mondo basterebbe invertire due vocali! “Le vocali sono la E e la O. La parola è DENARO. Da un'economia che, sul DENARO, ha fondato, da millenni, il suo potere, caricandone il significato di sopraffazione, egoismo, avidità, schiavitù, si può passare, solo con questa semplice inversione, all'economia del DONARE”. Invertiamo, invertiamo! E viva la pace nel mondo!
Non sei d'accordo? Ma come! Non sai che “sul DENARO si è fondato l'impero del vitello d'oro che scatenò l'ira del buon Mosé (il buon Mosé...) che fu costretto a scendere dal Sinai”? E oltre tutto era vecchio e ha dovuto portarsi giù a mano delle tavole di pietra!
Intendiamoci, il denaro in sé non è ignobile ma un mezzo come altri”. E infatti quando serve a comprarsi una villa in Costa Rica non vedo perché lo si dovrebbe continuare a scrivere a tutte maiuscole.
Ad ogni modo, e a scanso di equivoci, l'ecovillaggio batterà pure moneta: “la moneta si chiamerà FEUDO”, che è un bel nome e che permette di fare la differenza con le collane di perline di plastica del Club Méditerranée.
C'è poi il problema della salute, ma stai tranquillo: il villaggio “sarà equipaggiato con un'ambulanza per il pronto intervento”. Se poi ti capitasse qualcosa di grave, che problema c'è? “Per gli interventi di massima urgenza è disponibile l'eliporto di ecofeudo”. Niente di anormale: un po' come in tutti i villaggi italiani.
Ma, mi dirai, tutto 'sto popò di villaggio avrà pur bisogno di gente che ci lavori. Anche qui tutto è previsto: “il lavoro in ecofeudo assume un significato diverso. Viene percepito come l'applicazione della propria passione al servizio di una collettività attenta a tutti gli aspetti dell'ecosostenibilità”. Metti, dico a caso, ma metti che una costaricana abbia la passione delle pulizie dei cessi dei ricchi, o un costaricano della raccolta dei loro rifiuti: a EcoFeudo potranno mettere le loro passioni al servizio di una collettività attenta a tutti gli aspetti dell'ecosostenibilità. Pensa che bello! E magari saranno pure pagati in feudi, che potranno tranquillamente convertire nella loro banca abituale, quella dove vanno le donne di servizio e gli spazzini del Costa Rica.
Per finire, un po' di urbanismo. Vezzoli dice che aveva messo gli occhi su 30 ettari di terreno, e aveva pensato di edificarne 15. Edificare come? “Le costruzioni potranno avere una superficie fino a 750 mt quadrati coperti su un'area propria di 5000 mt quadrati di terreno”. Si parla quindi di trenta unità abitative, visto che ognuna occuperebbe col suo terreno mezzo ettaro. Questo naturalmente in assenza di un qualsiasi negozio, luogo collettivo, strada, eliporto, ecc.
Trenta unità abitative con rifugi antiatomici approvigionati per “garantire alla famiglia le condizioni di sopravvivenza per diversi anni”, quindi non parliamo di cantine di 10 metri quadri. 
Ma chi è questo Vezzoli? L'Emiro del Qatar, o lo scemo del villaggio? E che cacchio è questa ideologia che consiste nell'ambire alla creazione di mini-paradisi tropicali riservati a qualche vip? Come si compreranno queste case, con DENARO o con feudi? È immaginabile che uno che ha ideato un progetto come questo sia davvero “un ragazzo formidabile” (Grillo dal palco di Piazza San Giovanni in Laterano)?
Ma fatemi il piacere...

giovedì 7 marzo 2013

Le parole sono importanti

Beppe Grillo a Marina di Bibbiena

Quando, un paio di giorni fa, ho visto questa fotografia sui giornali, sono rimasto perplesso. Perché mai, mi sono chiesto, Beppe Grillo si è fatto immortalare in questa improbabile tenuta davanti alla sua villa sulla spiaggia di Marina di Bibbona? Ovviamente non per non farsi riconoscere dai numerosi giornalisti presenti; casomai per affermare visivamente la sua non-disponibilità ad essere intervistato.
Ma è la giacca in sé che mi ha più incuriosito E ho voluto saperne di più.
La giacca è della marca Ai Riders on the Storm, sul sito della quale leggo: “Pensato e disegnato da Giovanni Chicco, arriva un nuovo e originale progetto, garantito da 3 brevetti e la cui licenza è stata affidata a Comei & Co”. Sulla stessa pagina (http://www.ai-storm.com/about.php) leggo poi un'arzigogolata dichiarazione di intenti, in tipico linguaggio pubblicitese:
Ai storm è pianificare itinerari avventurosi. Trovare compagni di viaggio. Accettare le sfide. Condividere una storia. Rompere il ghiaccio. Guardare attraverso il vento. Scegliere una destinazione. Evadere. É stupire gli amici. É essere a proprio agio. É essere protetti da un guscio di futuro. É riuscire a vedere il mondo con colori diversi. É la giacca pirata come certe navi certi dischi certe bandiere. É raggiungere la consapevolezza della propria dimensione di spazio e di tempo. É amore. É amicizia. È iniziare a cambiare se stessi indossandola. Ai storm é una giacca da cittadino del pianeta pensata per lanciarsi alla scoperta del globo. Cambia i colori i rumori la musica e la vita. Rimane integra sotto ogni minaccia etica ed estetica”.
Beh, certo che l'assicurazione di una vita integra “sotto ogni minaccia etica ed estetica” è roba pesante...
Mi ha però particolarmente incuriosito il logo presente sulla giacca, che ho finito con l'individuare ingrandendo l'immagine. Il logo, che sulla giacca è arricchito dal disegno parziale di un orologio, è questo:


Ignorando completamente l'esistenza degli orologi U-boat, ho voluto anche qui saperne di più e ho trovato qualche precisazione sul sito della marca (http://www.uboatwatch.com/it/u-boat/le-origini.php?m=1&sm=3): “Lucca, 1942. Ilvo Fontana, artigiano di strumenti di precisione, ricevette una prestigiosa commessa dalla Marina Militare Italiana: disegnare e costruire un nuovo modello di orologio per i suoi piloti. La sfida consisteva nel soddisfare alti standard di qualità della Marina rispettando specifiche tecniche molto precise, e soprattutto garantire la massima visibilità ed affidabilità in ogni condizione di luce e tempo. Tuttavia le circostanze non permisero di concretizzare il progetto"
Le “circostanze” erano... la Seconda Guerra Mondiale. Il '42 è l'anno della battaglia di El Alamein. Mentre otto divisioni italiane erano mandate al macello dal governo fascista nel deserto egiziano, la Marina Militare chiedeva a Ilvo Fontana di disegnare un nuovo orologio per i suoi ufficiali.
Ma veniamo al nome U-boat. Il termine è un anglicismo derivato dal tedesco U-boot, a sua volta abbreviazione di unterseeboot, letteralmente “nave sotto il mare”, cioè sottomarino. Come lo spiega la pagina Wikipedia, U-boat è usato in tutte le lingue, meno che in tedesco, “come sinonimo dei battelli sottomarini tedeschi della prima e seconda guerra mondiale”. Si trattasse di aviazione invece che di marina, è un po' come se uno andasse in giro con un logo con su scritto Luftwaffe.
Ora, tanto per dirla con Nanni Moretti, le parole sono importanti. Le parole contano, dicono cose, spiegano, raccontano. Le parole hanno una storia, non cadono dal cielo. Sono mattoni con i quali costruiamo la nostra identità. Sono segnali. E ha ragione l'editorialista del Washington Post Richard Cohen a indignarsi che il nome di un sottomarino nazista sia usato oggi per motivi commerciali. “Chi comprerebbe, - si chiede Cohen – per non dire porterebbe un orologio il cui nome deriva da quello di un sottomarino assassino che, anche se già usato durante la Prima Guerra Mondiale, si guadagnò una reputazione durante la Seconda Guerra Mondiale combattendo per i Nazisti?
La risposta ce la dà Italo Fontana in un'intervista alla rivista online Business & Gentlemen (http://www.businessgentlemen.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2091:italo-fontana-orologi-e-passioni&catid=41:architettura-design&Itemid=58): "Sylvester Stallone ne ha quattro e mi ha anche voluto incontrare, Schwarzenegger ne ha voluto uno con la dedica “Governatore della California”, Armani l’ha comprato a Mikonos, Kenzo, David Beckham, Tom Cruise e Capirossi lo possiedono, e anche alcune donne, tra cui Victoria Beckham e Lindsay Lohan".
Come si vede da questa foto (bisogna ingrandirla per vederlo bene), anche Beppe Grillo ne ha uno, oltre a portarne il logo sul giaccone da alieno:

  L'U-boat di Beppe Grillo

Non vorrei essere frainteso: non sto dicendo che Grillo abbia simpatie naziste. Assolutamente no. Sto solo dicendo che trovo incomprensibilmente stupido e offensivo che uno come lui porti una giacca e un orologio con su scritto U-boat.
Beppe, ma se davvero volevi fare un po' di pubblicità a una marca di orologi, non potevi sceglierne un'altra? Lo so che poi ti lamenti di essere accusato di tutto e del contrario di tutto, però certe volte te le vai proprio a cercare: avevi proprio bisogno di portarti al polso un orologio da 2.000€ che si chiama U-boat andando a fare comizi?