mercoledì 28 marzo 2012

Un suicidio

EQUITALIA PUÒ UCCIDERE. Questa frase a caratteri cubitali è apparsa oggi sulla pagina Facebook di una mia conoscente in reazione al suicidio di un cinquantottenne immolatosi col fuoco davanti a degli uffici della Commissione tributaria della periferia di Bologna.
Un'altra conoscente ha addirittura pubblicato una foto dell'uomo in fiamme, foto sulla quale l'uomo è perfettamente riconoscibile, accompagnandola con un testo intitolato, in tutte maiuscole, NON FATE FINTA DI NON VEDERE, QUESTA È LA DURA REALTÀ.
La mia prima, spontanea e mentale reazione è stata "non diciamo cazzate…".
La seconda è stata una reazione di sdegno.
Ovviamente non posso che provare compassione per quel pover'uomo, senz'altro oberato dai debiti, che ha commesso un atto così drammatico, doloroso e definitivo. Ma che questo suo atto venga usato in modo così ripugnante è una cosa che mi offende.
Altrettanto ovviamente non sono certo un paladino di Equitalia, tanto meno una quindicina di giorni dopo aver pagato una multa dimenticata quasi il triplo del suo valore iniziale. E sono perfettamente conscio del fatto che il vortice dei debiti possa provocare disperazioni e sconforti tali da spingere qualcuno al suicidio.
Ma innanzitutto trovo ignobile pubblicare una foto come quella. E poi trovo che lanciare anatemi e maledizioni, vedi lezioni di morale completamente sopra le righe sia cadere nella trappola di una società dello spettacolo per la quale esistono solo le emozioni più immediate, a scapito di ogni forma di ragionamento.
La notizia che avevo letto sul giornale mi aveva fatto rabbrividire, come mi fa sempre rabbrividire qualsiasi suicidio dettato dalla disperazione. Ma non per questo condivido l'assurda idea che Equitalia in quanto tale possa uccidere, né accetto che mi si possa accusare di non voler vedere in faccia la “dura realtà” se non partecipo al coro dei biechi guardoni che sembrano incapaci di esprimere un'idea se non dopo essersi avvelenati con immagini raccapriccianti.
Non so chi abbia scattato quella foto, ma so che io non l'avrei fatto. E se anche l'avessi fatto in un momento di debolezza, mi sarei poi affrettato a cancellarla, vergognandomi come un cane.
La strumentalizzazione della sofferenza altrui che serve da carburante alla macchina dell'adrenalina è una delle cose che detesto di più nelle società occidentali. Non solo la foto della “realtà” non serve a niente, ma partecipa attivamente a quel processo di instupidimento e in ultima analisi di anestesia che costituisce il vero pericolo a cui siamo tutti sottoposti. Lo sanno bene i fotografi di guerra, che si trovano continuamente di fronte a dilemmi morali dai quali, per fortuna, la maggior parte escono a testa alta.
E se queste mie parole devono costarmi qualche amico, non importa.

domenica 18 marzo 2012

Una fesseria

Una spigola

Sulla Repubblica di stamattina c'è un intervista di Curzio Maltese al sindaco di Bari Michele Emiliano (http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/03/18/news/emiliano-31750326/index.html?ref=search). La ragione ne è la storia dei regali che costui, ex-magistrato antimafia, avrebbe ricevuto dai fratelli Degennaro, imprenditori recentemente indagati per “reati di corruzione, frode e numerosissimi falsi” (http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=500886&IDCategoria=1).
Secondo Emiliano, si è trattato di un pacco natalizio contenente “quattro spigole e cinquanta cozze”. Notiamo innanzitutto che secondo Il fatto quotidiano del 15 marzo scorso (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/15/appalti-regali-champagne-regali-degennaro-sindaco-emiliano/197447/) le “quattro spigole e cinquanta cozze” erano in realtà “champagne, vino e formaggi, quattro spigoloni, venti scampi, ostriche imperiali, cinquanta noci bianche, cinquanta cozze pelose, due chili di allievi locali di Molfetta e otto astici”. Lo stesso Emiliano inoltre, in una conferenza stampa (http://video.repubblica.it/edizione/bari/emiliano-e-il-pesce-nella-vasca-da-bagno/90602?video) ha parlato di “una valanga di pesce”. Sua moglie gli avrebbe detto “qui non sappiamo dove metterlo” e lui stesso, incontrando poi uno dei Degennaro, gli avrebbe spiegato: “abbiamo una parte di questo pesce nella vasca da bagno, non sappiamo cosa farne”. Si vede che le spigole si erano incrociate con dei delfini, dando vita a un aberrante modificazione genetica...
Ma non è questo il punto (anche se...).
Il punto è che, da quanto ne so io, Emiliano non mi pare uno in odore di mafia. Forse, come ha detto lui stesso, è solo uno che ha commesso una fesseria e quel regalo ittico-champagno-latticinoso è a migliaia di anni luce dalla casa pagata a sua insaputa al povero Scajola, dai soldi ricevuti dall'avvocato Mills, da quelli intascati da Luigi Lusi e dalle migliaia di mazzette che circolano ogni giorno nel nostro Bel Paese.
Ma il punto vero (ci stiamo arrivando) è che Emiliano dice a Curzi: “Io il processo me lo faccio da solo, visto che non sono accusato di alcun reato. Mi processo davanti a tutti per quattro spigole e cinquanta cozze pelose. (…) Mi condanno. Per leggerezza. Non dovevo accettare quel regalo. (…) Siccome sono una persona perbene, convinta di essere la Madonna del santuario, pensavo che chiunque mi fosse accanto non potesse non essere in buona fede. (…) Sono il primo a non sottovalutare la vicenda. Ho sbagliato. Ma sono stato un fesso, non certo un corrotto. (…) Ripeto che ho sbagliato e me ne sono assunto tutte le responsabilità”.
Quando Maltese gli chiede poi se non sarebbe meglio dimettersi, la sua risposta è “Comodo, ma non giusto. Voglio rimanere fino alla fine, mettere a frutto quello che ho imparato da questa vicenda, guardarmi attorno con più attenzione e fare pulizia, sbattere fuori dal comune di Bari chiunque si sia avvicinato a me per fare i propri affari. Poi potrò passare la mano a qualcun altro. Dubito più onesto, magari più furbo”.
Non so a voi, ma a me tutta questa storia non piace. Che uno faccia “una fesseria” e poi lo ammetta, ok. Che però il processo se lo faccia da solo e che decida di “rimanere fino alla fine” è un chiaro segno del fatto che quell'autoprocesso è risultato in un'assoluzione. E questo non mi sta bene.
Pur con la necessità di non cadere in una specie di isterico giustizialismo, mi sembra che finché andremo avanti a fare distinzioni tra i regali piccoli e quelli grossi, soprattutto se è chi li riceve che si autorizza a farla, questa distinzione, descrivendo magari come “quattro spigole e cinquanta cozze” ciò che altrove si lascia andare a definire come “una valanga di pesce” (dimenticando il resto), finché andremo avanti così le acque resteranno torbide. Il discorso secondo il quale ci sono altri che fanno cose molto peggiori può anche essere vero e giusto, però non vi sembra che sia un po' facile quando è usato per assolvere sé stessi? Se il metro con il quale si misurano le colpe, soprattutto le proprie, è sempre quello delle colpe più grandi, commesse da altri, allora è chiaro che tutti ci sentiamo automaticamente in diritto di continuare a pagare in nero, di prestarci a piccole truffe di poco conto, di dimenticare qualche dettaglio nella dichiarazione dei redditi, ecc. ecc. Il fatto che ciò che è piccolo per me sia grande per un altro e che io e quell'altro facciamo parte di una stessa società svanisce nel nulla e implica automaticamente che più uno ha, meno considera come colpa il fatto di ricevere o di dare fuori dalle regole.
Ripeto: non sono favorevole a un modo di pensare e di agire eccessivamente rigorista, credo anzi indispensabile mantenere dei piccoli spazi, se non di illegalità, almeno di para-legalità (cose “diversamente legali”, si direbbe oggi), senza i quali le nostre vite quotidiane sarebbero dominate da un'insostenibile rigidità.
Mi pare però che chi è stato eletto dal popolo ad una carica pubblica debba capire che la dignità del posto che occupa implica un rigore ben più grande di quello al quale deve sottomettersi il semplice cittadino. Mi pare che un eletto del popolo abbia quel dovere di trasparenza assoluta senza il quale le crepe che si vengono a creare nella fiducia della gente verso lo Stato e la cosa pubblica in generale non possono che aumentare giorno dopo giorno.
La domanda che dovremmo farci non è di sapere se Emiliano debba o no dimettersi, ma se il segnale che le sue dimissioni darebbero non sarebbe mille volte più utile a tutti della sua auto-assoluzione. Se Emiliano dicesse “sono stato un fesso, anche se sono un uomo onesto, ma proprio perché sono un uomo onesto mi dimetto”, non solo tutti lo capiremmo, ma tutti lo rispetteremmo, indipendentemente dalla sua appartenenza politica. Che invece dica “sono stato un fesso, ma voglio andare fino in fondo” mi dà fastidio, perché ho l'impressione che porti avanti la stessa, deleteria logica nella quale viviamo da anni e anni. E allora mi dico che Michele Emiliano, uomo onesto, fesso lo è anche e soprattutto adesso. E che forse proprio per questo dovrebbe dimettersi.