mercoledì 28 settembre 2011

Ecchisenefrega?


Altero Matteoli, nipote di Altero Luigi Matteoli, che fu il primo veterinario di Livorno, è il nostro ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Buon per lui. Se non fosse per l'alterigia anagrafica inflittagli da genitori poco scrupolosi, il suo nome non avrebbe probabilmente mai attirato la mia attenzione. Senonché l'ha fatto oggi il sito di Repubblica con un articolo intitolato Ance: fischi e urla contro Matteoli. I costruttori: “Vergogna”. (Pare che l'Ance, chissà perché scritta con una sola maiuscola, sia l'Associazione Nazionale dei Costruttori Edili).
Andato sul sito del Fatto quotidiano, ho trovato un altro titolo: “Vergogna, dovete andare via”. Matteoli contestato dagli edili.
Secondo Il Giornale, Un gruppo di costruttori critica il ministro Matteoli al grido di “Vergogna”, mentre per Libero Costruttori insultano Matteoli. Lui replica: non ci sono soldi.
Insomma, la cosa sembra seria. Talmente che me ne sono andato a guardare il video che documentava la contestazione anti-Altero. Ora, cos'ho visto nel video? Quattro, dico quattro (e forse solo tre, non si vede bene) signori in giacca e cravatta che effettivamente si scalmanano dal fondo della sala nella quale l'Altero ministro offriva una dimostrazione della sua competenza.
Devo proprio star lì a premettere che le mie simpatie vanno più spontaneamente a Repubblica e al Fatto che ai due altri organi di stampa precitati? Vabbé, l'ho fatto.
Ma mi chiedo: vale davvero la pena di spendere carta, inchiostro, tempo ed energia per segnalare e commentare il fatto che quattro, dico quattro, imprenditori hanno gridato a un pur Altero ministro che dovrebbe vergognarsi? Che giornalismo è questo, se ci porta a tirare conclusioni affrettate su fatti del tutto marginali?
Ahimé, come credo che il mio esempio le dimostri chiaramente, non si tratta solo di giornalismo berlusconiano, ma anche di quello di sinistra. È proprio indispensabile fare un articolo su un oscuro deputato PdL che propone di sostituire il 25 aprile con il 18, anniversario delle prime elezioni politiche del dopoguerra? Certo, la proposta è non solo una scemenza, ma anche un chiaro desiderio di far scomparire la Resistenza dalla nostra memoria comune. Ma lo stesso presidente dell'ANPI dichiara di pensare “che non se ne farà nulla”. Allora perché sventolare spauracchi se è ovvio dall'inizio che si tratta di stupide e meschine provocazioni?
In questo momento sono in Francia e leggo i giornali italiani su internet. Sono basito dalla prima pagina di Repubblica. Qualche titolo? Kutcher - Demi Moore, il matrimonio vacilla. Ecchisenefrega? La spesa delle star. La decadenza del look. Ecchisenefrega? Scilipoti e il giornalista, la gag del microfono. Ecchisenefrega? Vestire alla Sophia, con body, pizzi e tacchi d'oro. Ecchisenefrega? Addio all'opossum strabico, scompare la tenera Heidi. Ecchisenefrega? Rihanna show, secondo atto – dopo la campagna il centro. Ecchisenefrega? Pippo Baudo colto da malore. “È la pressione, ora sto bene”. Ecchisenefrega? Il calcetto? Lo organizzo online – impazza il network del gol. Ecchisenefrega? Ecc. ecc. ecc.
Ieri, o l'altro ieri, non so più, c'erano tre foto, dico tre, del colletto della camicia di Paolo Berlusconi, sul quale erano ricamate le parole mi consenta. Macchisenefregaaaa?!!!
Siamo inondati di notizie inutili. Finché si tratta di Rihanna, che non so chi sia, o del Carneade Kutcher, che scopro essere il marito di una che, da quel che mi risulta, non fa più film da vari anni, ancora ancora... Non leggo la notizia, e via. Ma ben più grave, irritante e deviante è che mi si voglia dare l'impressione di un imprenditoriato che si ribella a un ministro quando io stesso posso poi verificare con due clic che si trattava solo di quattro individui su non so quante decine o centinaia di presenti. È proprio necessario scendere così in basso? È proprio indispensabile che ogni giorno il giornale che leggo sia pieno di frasi rigorosamente virgolettate che poi si capisce, per ammissione stessa del giornalista, essere state dette in privato a un compagno di partito che ovviamente, anche se fosse il più scemo degli scemi, non sarebbe mai andato a raccontarle a uno della Repubblica?
Posso dire, senza farmi trattare da reazionario incolto, che l'oceano di inciviltà nel quale stiamo annegando è fatto anche di queste approssimazioni, di queste finte verità, di queste pseudo-analisi e di queste citazioni fantasiose?
Sarà meglio che vada a farmi un caffé...

martedì 27 settembre 2011

Ulivi spezzati

Ho trovato questa foto sul sito del Washington Post. 
La didascalia dice: “25 sett. 2011. Un contadino palestinese tiene un ramo d'ulivo rotto nel villaggio di Qusra, West Bank. Contadini palestinesi hanno trovato più di quattrocento ulivi sradicati o spezzati domenica e ne hanno dato la colpa ai vicini coloni ebrei estremisti”.
Ci sono foto così, che ti saltano agli occhi mentre stai facendo colazione e che ti fanno ribollire il sangue. In realtà è solo in un secondo momento che mi sono detto che l'ulivo è considerato come l'albero della pace da ebrei e cristiani. Non ci avevo nemmeno pensato perché l'ulivo è qualcosa di più forte: è tutti noi mediterranei, è l'antico simbolo di quelli che venivano chiamati i popoli dell'ulivo, le civiltà dell'ulivo. Non più di una settimana fa mi ha fatto sorridere l'osservazione di un'amica californiana che mi diceva “adesso gli ulivi e l'olio d'oliva ce l'abbiamo anche noi”, perché ce ne sono piantagioni in California. Ho quasi sentito un piccolo dolore, come se si fosse trattato di un'appropriazione indebita.
Gli ulivi della Toscana, quelli, vecchi, vecchissimi e magnifici delle Puglie, quelli del Marocco, della Grecia, dell'Egitto, di Israele, dell'Andalusia, che tengono su da secoli fino a diventare esseri contorti che fanno pensare a certi personaggi del Signore degli anelli sono... noi. E c'è un senso di immensa barbarie nell'idea di spezzarli volutamente e sistematicamente uno per uno. È come fare un falò di pane, o pisciare dentro un bicchiere d'acqua. Annientare, negare umanità, spargere odio a piene mani.
Trovo questa foto più insopportabile di mille immagini di guerra, forse perché immagini di guerra ne vediamo, ahimé, ogni giorno, mentre questa non me l'aspettavo proprio. E trovo che ci voglia una certa volontà per resistere alla tentazione dell'odio verso chi di questo crimine si è reso colpevole. Una volontà indispensabile, certo, ma faticosa, sempre più faticosa.

lunedì 12 settembre 2011

Prego, porga la chioma...

Capelli misisteriali

Il ministro per i beni e le attività culturali, Giancarlo Galan, ex-governatore del Veneto, sfoggia sul suo augusto capo una chioma certo non folta, ma dall'aspetto manageriale. Buon per lui.
Quella chioma necessita naturalmente di cure presso un barbiere, acconciatore, parrucchiere, o coiffeur che dir si voglia. Poiché, al contrario del ministro, io da anni ormai ho scelto di andarmene in giro con un cranio oscenamente calvo, che rendo tale con un rasoio manuale di marca Gillette e una crema da barba del Dr. Harris &Co. Ltd (London), non conosco l'ammontare della spesa contemplata da un servizio di taglio e magari shampoo compreso. 20€? 15? 30? Non lo so.
Ma il nostro ministro per i beni e le attività culturali lo sa, ed è proprio per questo che, invece di recarsi da un artigiano che non mancherebbe di pretendere una somma probabilmente proibitiva per uno stipendio ministeriale, preferisce avvalersi dei servigi del parrucchiere della Camera.
Il solo piccolo problemino è che il Sior Galan deputato non lo è, e quindi, onde godere di quel piccolo privilegio che gli onorevoli (si fa per dire) rappresentanti del popolo sovrano si sono sovranamente attribuiti, si fa prestare il tesserino parlamentare da uno di loro. Anzi, da una, visto che l'onorevole (si fa sempre per dire) Giustina Destro, ex-sindaco di Padova nonché vicepresidente di Confindustria, ha candidamente ammesso l'incauto prestito.
Davvero lei ha...” stava chiedendole un giornalista del Corriere della sera. “Beh, sa, con Galan siamo molto amici, siamo entrambi di Padova e... comunque sì, certo: gli ho prestato il mio tesserino per entrare dal barbiere”, si è affrettata a confessare la distinta signora, aggiungendo: “Credo che ogni tanto glielo prestino anche altri suoi amici deputati". Di Padova anche loro? Molto amici anche loro? Non si sa.
Quel che si sa è che l'egregia Sora Giustina trova che non ci sia di che, visto che così conclude: "Ma davvero le sembra una cosa tanto grave?”
Per carità, signora mia, la cosa non è affatto grave! Non siamo mica in Svezia, in Danimarca o in Gran Bretagna, dove un ministro colto sul fatto di piccola truffa capillare sarebbe rapidamente costretto alle dimissioni insieme all'onorevole (vedi sopra) che ha reso la truffa possibile... Siamo in Italia, perbacco! E lei ha perfettamente ragione quando ci invita a concentrarci “sui problemi gravi che il Paese vive in questo momento”. Vorrà mica mettere una cosa da ridere come un ministro tanto meschino da farsi tagliare i capelli gratis con un imbroglio, con quelle ben più gravi “che il Paese vive in questo momento”...
Il problema dei piccoli privilegi e delle piccole truffe della Casta a cui lei e il suo amico ministro appartenete sono bazzeccole, quisquilie, pinzillacchere, sciocchezzuole, bagatelle, banalità, inezie! Per Dinci e anche per Bacco!, come diceva un grande poeta, non esageriamo, sennò rischiamo davvero di far traboccare il vaso dalla goccia!
Un singolo licenziamento, una singola bolletta non pagata, una singola fattura non emessa, una singola tassa non versata, una singola casa costruita abusivamente, una singola auto blu usata per andare a far compere, sono tutte quisquiglie! E il suo partito e il governo che lei sostiene fanno benissimo a non occuparsene.
Gli stupidi siamo noi, che ci ostiniamo a sommare pinzillacchera a bagatella e banalità a sciocchezza, traendo l'insulsa conclusione della vostra indegnità a rappresentarci. Gli stupidi siamo noi che rifiutiamo di accettare che tutto questo sia normale.
Per fortuna, nonostante la nostra stupidità, possiamo contare su una classe politica che sa guardare altrove, più in su e più in là, senza lasciarsi avvilire da critiche tanto ingiuste quanto smisurate.
Scusi se mi permetto, ma io ogni mattina vado al bar a prendermi un caffé che mi costa 90 centesimi. A prescindere, avrebbe mica un tesserino da prestarmi?

domenica 11 settembre 2011

Un'immagine dell'11 settembre


Non conoscevo questa foto prima di trovarne traccia questa mattina in un articolo apparso sul Guardian del 2 settembre scorso. Non chiedetemi come ci sono arrivato, non me lo ricordo. So che stavo guardando le pagine di Libération, ho cliccato su qualcosa e sono arrivato lì.
Ovviamente la foto mi ha immediatamente colpito perché è un'immagine dell'11 settembre 2001 diversa da tutte le altre. Come lo spiega l'autore della foto, Thomas Hoepker, in un articolo apparso su Slate nel 2006 (http://www.slate.com/id/2149675/), è molto diversa anche da quest'altra, di Alex Webb, di cui lo stesso Hoepker dice che “ha un aspetto simile di vita che continua, ma anche una tenerezza che manca nella mia”. 


Hoepker ha aspettato quattro anni e mezzo prima di far vedere la sua foto. Ecco come ci spiega questo ritardo:
(In un primo momento) misi da parte quella scena idilliaca, sentendo che non rifletteva per nulla la realtà di quel giorno. Sentivo che la foto era ambigua e prestava a confusione: pubblicarla avrebbe potuto distorcere la verità di ciò che sentimmo quel giorno. (…) La foto non mi sembrava “giusta” in quel momento. (…) (Quattro anni e mezzo dopo), lontana dall'avvenimento, mi apparì strana e surreale. Faceva domande, ma non dava risposte. Come può un disastro capitarci addosso in una così bella giornata? Come può quel gruppetto di ragazzi cool starsene lì seduto in maniera così rilassata e apparentemente indifferente di fronte alla madre di tutte le catastrofi che si svolge sullo sfondo? Questa era l'insensibilità di una generazione che ha visto troppa CNN e troppi film dell'orrore? Oppure era la menzogna ambigua di uno scatto che ignorava i secondi precedenti e seguenti il momento in cui avevo schiacciato il bottone? Forse questo gruppo aveva appena vissuto un momento di agonia e di catarsi, o magari aveva discusso a lungo in maniera preoccupata? Era obbligatorio correre a destra e a sinistra con la faccia preoccupata quel giorno, o nelle settimane seguenti l'11 settembre? Come sarei apparso a un osservatore distante in quel giorno? Probabilmente, come un fotografo dal cuore di ghiaccio preoccupato dall'idea di fare lo scatto della sua vita. Io mi ricordo solo che ero sotto shock, confuso, impaurito, disorientato e emotivo, ma che mi sforzavo di rimanere concentrato sulle mie foto. (…) Credo che questa foto abbia toccato molte persone proprio perché resta confusa e ambigua in tutta la sua chiarezza inondata dal sole.
E poi mi è venuta in mente un'altra foto, quella che valse a Kevin Carter il Pulitzer 1994.


Anche qui c'è qualcosa di profondamente equivoco e disorientante, qualcosa che ci provoca un'immediata reazione di sconcerto e di orrore, visto che l'immagine suggerisce che l'avvoltoio stia aspettando la morte del bambino per mangiarselo. L'impressione è ulteriormente rafforzata dalla posizione dell'avvoltoio (a sinistra della foto, quindi "entrante"), nonché dalla testa chinata del bambino, che sembra stia morendo. Anche qui le cose stavano diversamente, come lo ha spiegato un collega di Carter, João Silva, presente sul posto. 
Secondo Silva, i due erano andati in Sudan con le Nazioni Unite l'11 marzo 1993. Atterrarono da qualche parte nel sud del paese e i responsabili UN dissero loro che non avevano che 30 minuti prima di ripartire, poi incominciarono a distribuire cibo ai rifugiati. Gli adulti si accalcarono intorno all'aereo, lasciando per qualche istante soli i bambini. Carter vide la scena e, per ottenere una maggiore profondità di campo, si avvicinò al soggetto molto lentamente (per non spaventare l'avvoltoio, che avrebbe potuto volare via) e fece poi il suo scatto. Pochi istanti dopo l'avvoltoio se ne volò effettivamente via.
Guardando le due foto, quella di Hoepker e quella di Carter, una accanto all'altra, mi chiedo cosa ci sia di simile e cosa di diverso. Prima di tutto, direi, la distanza del fotografo, che è lontano nella prima e molto vicino nella seconda. Poi il fatto che mentre quella di Hoepker mostra una tragedia in corso (pur se in secondo piano e solo suggerita dalla nuvola di fumo), quella di Carter sovrappone alla tragedia in corso (la fame del bambino) una tragedia a venire (la morte del bambino e il pasto dell'avvoltoio). Sovrapponendo le tragedie, e facendolo così da vicino, è come se Carter finisse con l'annullarle l'un l'altra proponendoci, anzi obbligandoci quasi a un'altra lettura dell'immagine, quella dell'indifferenza di chi preferisce scattare piuttosto che intervenire. Il che, ovviamente, è un dibattito vecchio come il fotogiornalismo.
Ma quel che fa la vera differenza tra le due foto è che mentre quella di Carter ci opprime immediatamente con la sua brutalità e il suo apparente voyeurismo, quella di Hoepker ci porta a farci delle domande. Anche se la nostra prima reazione è di stupore davanti all'apparente indifferenza di quei ragazzi, immediatamente ci chiediamo il perché di quell'indifferenza, e se sia vera indifferenza. È come se l'immagine di Hoepker fosse stata scattata da un passante sorpreso (il che, in un certo senso è vero, come spiega Hoepkner stesso), mentre quella di Carter avesse dietro una precisa volontà di denuncia attraverso uno shock emotivo.
Carter finì col suicidarsi pochi mesi dopo aver ricevuto il Pulitzer. Lasciò un biglietto nel quale diceva che si sentiva “tormentato dai vividi ricordi di omicidi e cadaveri e rabbia e dolore... di bambini affamati o feriti, di uomini impazziti dalla felicità provocata dal grilletto, spesso poliziotti, di assassini professionisti...”.
Forse è questa la vera differenza che traspare dalle due immagini: nella prima c'è lo sguardo di qualcuno che di fronte all'orrore non se ne fa divorare e si sforza di rimanere concentrato sulle sue foto; qualcuno, cioè, che in un momento di estrema tensione si sforza di continuare a fare il suo mestiere di fotografo. Nella seconda c'è invece tutto lo smarrimento di un fotografo che dall'orrore si lascia soverchiare fino a scordarsi di essere fotografo. Carter non documenta quell'orrore, ne diventa a sua volta vittima, fino a non sopportarlo più, a non sopportare più il mondo che lo ha generato e a decidere di suicidarsi.
Forse allora è proprio questo il problema della foto di Carter: che ci obbliga quasi a spostare il nostro sentimento di orrore dalla scena fotografata verso l'atto stesso del fotografarla. Anche per questo la foto di Hoepkner mi sembra infinitamente più interessante, oltre ad essere infinitamente più "utile".
 

venerdì 9 settembre 2011

9 settembre

Ahmad Shah Massud

Ho fatto un piccolo quanto involonario (o inconscio?) esperimento su Facebook. Oggi è il 9 settembre, cioè per molti l'antevigiglia dell'11, anche perché da giorni ormai radio, televisioni e giornali ci inondano di annunci di celebrazioni del decimo anniversario di quella tragica data.
Niente da dire sull'11 settembre naturalmente, o per lo meno niente da dire sulle 2606 vittime di New York, sulle 246 del “quarto aeroplano” e nemmeno sulle 125 del Pentagono.
Però oggi non è l'11 settembre, è il 9. Per questo ho pubblicato sulla mia pagina Facebook una foto di Ahmad Massud, “il leone del Panshir”, che fu ucciso da due estremisti islamici il 9 settembre 2001. Ho pubblicato anche un link (http://www.afghan-web.com/documents/let-masood.html) verso il testo, in inglese, di una sua Lettera al popolo americano del 1998.
Prima constatazione: uno pubblica su Facebook una foto di vacanze, un commento sulle tette di una velina, uno scontatissimo commento su un uomo politico e nei minuti che seguono riceve tutta una serie di mi piace e di altri commenti. Sette ore dopo la mia pubblicazione, niente.
Sia chiaro, non è che stia piagnucolando perché nessuno ha fatto click su mi piace, non è questo il punto. Il punto è che mi pare che la morte di Massud abbia costituito un avvenimento per lo meno degno di una commemorazione dieci anni dopo.
Ahmad Massud non era un angelo, era un combattente. Aveva combattuto contro i sovietici quando questi occupavano il suo paese e combatteva contro i talebani che dello stesso paese erano nel frattempo diventati gli ignobili dirigenti. Era un musulmano fervente, cosa che non attirava certo la mia simpatia (che peraltro è molto limitata anche nei confronti di cristiani, ebrei, induisti, buddisti, animisti, o altri ...isti ferventi. Ma è vero che nella misura in cui la religiosità di chicchessia non diventa invadente e intollerante ho l'abitudine di prenderla come l'espresione di un diritto che non capisco, ma che rispetto).
Ma neanche questo è un punto fondamentale.
Quel che conta è che Massud era un simbolo, uno di quei simboli di cui abbiamo sempre tutti bisogno per trovare in loro uno stimolo alla nostra piccola, individuale e privata ricerca di dignità. A suo tempo (io ero bambino), Patrice Lumumba fu uno di quei simboli. In passato, Giuseppe Garibaldi, Simon Bolivar, Abraham Lincoln, Winston Churchill furono simboli. Più tardi lo furono Ernesto Che Guevara, Thomas Sankara, Nelson Mandela. John Kennedy è stato un simbolo, e poi lo sono stati, almeno per un breve periodo, Michail Gorbacev e Barak Obama. Oggi,in maniera diversa, lo sono il Dalai Lama e Aung San Suu Kyi. Nessuno di questi personaggi, soprattutto se visto col senno di poi, è stato o è un angelo. Tutti hanno commesso errori e tutti sono almeno parzialmente discutibili. Ma nonostante ciò, il mondo sarebbe un po' peggiore di quello che è se anche uno solo di loro non fosse esistito. È su di loro che ci siamo costruiti, che ci siamo strutturati, che siamo diventati quello che siamo. Possiamo amarne uno più di un altro, possiamo preferire Giordano Bruno a San Francesco, Galileo a Copernico, Pasternak a Solzenicyn, Goya a Picasso, ma tutti, anzi ognuno di loro è una delle pietre del piedestallo sul quale cerchiamo di rimanere in piedi nonostante i venti di stupidità, intransigenza e violenza che cercano di buttarci giù.
Ricordare Massud oggi non vuol dire soltanto commemorare una vittima del fanatismo religioso. Significa soprattutto contribuire a tenere acceso uno di quei lumi di speranza di cui i nostri figli e nipoti non possono fare a meno e di cui noi stessi continuiamo ad avere bisogno.
Ricordo perfettamente quel giorno dell'ottobre 1967 in cui, passando per via Brera, a Milano, vidi per la prima volta un manifesto in bianco e nero con la foto del “Che” e la scritta “il Che vive”. Perché oggi non vedo manifesti con su scritto “Massud vive”?

venerdì 2 settembre 2011

Di fotografia, ancora

Leica A

Il mio post dell'altro ieri, intitolato Di fotografia, mi ha valso vari commenti. Grazie innanzitutto a chi mi ha offerto la sua opinione. Ma vorrei tornare sul tema della fotografia, sul quale non solo ci sarebbero un sacco di cose da dire, ma sul quale in molti abbiamo, a torto o a ragione, l'impressione di avere un sacco di cose da dire.
Mi è tornata in mente quella storiella secondo la quale dando a una scimmia una tastiera di computer su cui scrivere, statisticamente prima o poi ci si dovrebbe trovare in mano il testo integrale della Bibbia (o dell'Iliade, o di quello che volete).
Allo stesso modo, dando in mano alla stessa, occupatissima scimmia una macchina fotografica, sarà inevitabile, prima o poi, avere sotto gli occhi una cosa degna di Avedon, Koudelka, o Burri.
La “bella” fotografia, se non addirittura il capolavoro, non è di per sé indice di genialità creativa. Può essere un incidente di percorso, un caso, un unicum dovuto a un'ineluttabilità legata alla quantità di scatti. La differenza tra il dilettante e il professionista sta nella ripetibilità di questo unicum molto più che nelle indicazioni riportate sulla busta paga del fotografo. Che chi ha fatto lo scatto sia “fotografo professionista” o no, cioé che si guadagni da vivere o no scattando foto, c'entra ben poco.
Non solo: non è nemmeno detto che questa ripetibilità sia più probabile per chi si guadagna da vivere scattando foto che per altri, che fanno altri mestieri. Non si capirebbe altrimenti perché esistanto tante foto scattate da “professionisti” che sono tanto scadenti, ininteressanti, banali e insulse.
La “professionalità” non è mai prova di qualità, tanto meno nelle nostre società mercantili. Semmai è prova di professionalità nella vendita, il che è un'altra cosa. Confondere le due è profondamente errato e serve solo a portare acqua al mulino dei mercanti più disonesti.
Con questo non voglio dire che non ci sia mai nessuna differenza tra dilettanti e professionisti. Le differenze ci sono, ma quando ci troviamo davanti a una situazione nella quale chiunque ha la possibilità di produrre migliaia e decine di migliaia di scatti all'anno per un prezzo irrisorio, queste differenze si trovano altrove, nella conoscenza tecnica del mezzo impiegato, nella capacità o meno a incorrere in errori madornali di esposizione, inquadratura, ecc. Il che è un vero problema, perché ci spinge a un cambiamento epocale della valutazione della professionalità e del dilentattismo: o restiamo ancorati a una logica che ci fa chiamare professionista chiunque riesca a vivere delle sue foto, oppure dobbiamo trovarne un'altra.
In realtà tutte le discipline artistiche hanno la stessa caratteristica: lasciano spazio sia ai maestri che ai ciarlatani. Finché i mercati erano limitati e meno dominanti, si operava una specie di selezione naturale che lasciava adito a pochi dubbi. Ma oggi, quando la figura dell'artista è spesso considerata più importante della sua creazione, tutto diventa più complesso. Se da un lato i maestri restano maestri e i fotografi della domenica restano fotografi della domenica (come i teatranti, i ballerini, i cineasti, ecc. della domenica), assistiamo a un'espansione pazzesca di quell'area grigia e indistinta nella quale si situano milioni di dilettanti che “hanno un occhio” e sanno sfruttare al meglio le possibilità tecniche di apparecchi accessibili e relativamente semplici.
C'è chi si indigna di questa nuova situazione, prendendo spunto da comportamenti particolarmente scorretti. C'è chi ne approfitta in maniera vergognosa, spostando il rapporto coi professionisti verso un piano amatoriale. Ma queste reazioni mi sembrano destinate a sparire col tempo. Cosa verrà fuori da questo rimescolamento delle carte? Nessuno lo può dire con certezza, tanto più che il rimescolamento in corso va largamente al di là del campo dell'espressione artistica allargandosi alla politica, alle ideologie, all'etica, alla morale, al modo di vivere di tutti noi in società che sembrano impazzite e che corrono al baratro gridando di gioia.
Ogniqualvolta mi sono trovato a lavorare in paesi poveri, del terzo mondo, mi sono sorpreso a pensare quanto la vita laggiù fosse più “facile”. Non certo più facile nei rapporti con lo Stato, né coi datori di lavoro, ma estremamente più facile umanamente ed eticamente. Quando guadagnarsi da vivere è difficile (e parlo di vere difficoltà, ben più grandi di quelle che molti di noi hanno, difficoltà da terzo mondo, appunto), è molto più facile distinguere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto, l'accettabile dall'inaccettabile. I “buoni” sono davvero buoni e i cattivi lo sono fino in fondo. C'è poco da discutere in società “semplici” nelle quali la sopravvivenza quotidiana è il problema essenziale della maggior parte della popolazione. Le disquisizioni dotte e complesse nascono solo nel momento in cui una data società diventa lei stessa dotta e complessa. La risposta alle domande che tanti di noi si pongono oggi non può essere trovata se non attraverso posizioni di rifiuto quanto più possibile radicale dell'insieme dei valori che la nostra società attuale tende ad imporci. Non si tratta di essere passeisti e di sognare un ritorno indietro verso una società rurale, ma di cercare quotidianamente e in tutti i campi di non lasciarsi abbindare da chi ha bisogno che le cose siano sempre più confuse e complesse per aumentare il suo potere e il suo controllo sugli altri.
Ci sono discussioni che vanno semplicemente rifiutate perché non hanno altra utilità che quella di togliere dignità a chi vi prende parte. Non è vero che si debba sempre e comunque cercare di dimostrare a chi ha torto che lo ha: è sempre più vero che il silenzio e il rifiuto del finto dialogo sono le sole scelte dignitose da fare.
Vabbé, mi sono lasciato prendere la mano... Ma spero che quel che volevo dire sia comunque chiaro. Dilettanti o professionisti che siamo, cerchiamo di andare avanti in maniera dignitosa, senza occuparci di nani, ballerine, incantatori e profeti che senza la nostra complicità cesserebbero semplicemente di esistere. Smettiamo di accordare importanza a chi blatera e sproloquia, a chi vende fumo e soprattutto a chi fa di tutto per farci credere che senza quel fumo saremmo dei poveri sprovveduti, degli ignoranti e delle vittime inconsapevoli. È vero proprio il contrario: è sprecando adrenalina e saliva ad ogni nuova baggianata che rischiamo di finire tutti come i personaggi del 1984 di Orwell.
E adesso un buon caffé, prima di fare qualche scatto.

Chi è Alessandro Zamboni?



Stamattina ancora ricevo su Facebook il messaggio seguente: 
ATTENZIONE!!! NON accettate richiesta di amicizia di questa persona: ALESSANDRO ZAMBONI sta cercando di accedere alle foto dei bambini. Copia e incolla sulla tua bacheca! URGENTISSIMO”.
Siccome questo messaggio mi era già stato mandato ieri e l'altro ieri e il giorno prima da altre persone, sono andato a vedere chi fosse questo Alessandro Zamboni e in pochi istanti ne ho trovati più di cinquanta.
Ma soprattutto questo tipo di messaggio mi fa sempre pensare ad altre cose simili, tra le quali la famosa “voce di Orléans” (rumeur d'Orléans). Nel 1969, nella tranquilla città francese di Orléans, si sparse una voce secondo la quale alcuni camerini di prova di negozi d'abbigliamento appartenenti, guarda caso, a degli ebrei, sarebbero stati delle trappole nelle quali ignare donne venivano addormentate con una puntura e poi consegnate a dei magnaccia che controllavano un giro di prostitute. Si arrivò persino a dire che le donne venivano portate in un sottomarino immerso nella Loira e da lì poi... chissà dove.
Io non conosco nessun Alessandro Zamboni e non posso escludere a priori che almeno uno di loro sia uno schifoso pedofilo a cui piacerebbe accedere alle foto dei miei nipoti. Però mi chiedo: chi ha per primo parlato di Alessandro Zamboni come di un pedofilo? Perché l'ha fatto senza dare nemmeno la più piccola spiegazione di quanto affermava? Perché tante persone normalmente ragionevoli e rispettabili mettono in guardia amici e parenti contro un individuo di cui non sanno nulla?
E poi, ed è questo il fondo della questione: è più grave non diffondere questo tipo di “notizia” anche se la si è ricevuta da persone “fidate”, oppure diffonderla comunque, aumentando così la paranoia generale?
Mi pare che la diffusione sconsiderata di questo tipo di cosa dipenda da due elementi: 1) la paura di scoprire troppo tardi che non si era fatto niente, mentre si sarebbe potuto farlo; 2) il timore che, semmai ci si trovasse un giorno nella posizione di vittime, non ci si potrebbe difendere adeguatamente.
La “voce di Orléans” è stata a lungo analizzata in Francia e ha addirittura costituito il soggetto di un libro di Edgar Morin (Edgar Morin, La rumeur d’Orléans, Seuil, coll. «L’histoire immédiate», Parigi, 1969). È ormai opinione comune che il suo successo fu dovuto a un sentimento di antisemitismo non lontano da quello che, a suo tempo, ma ancora oggi, vorrebbe dare una qualsiasi credibilità all'infame quanto famoso Protocollo dei Saggi di Sion messo in giro dalla polizia zarista dei primi del '900.
Qui ovviamente non si tratta di antisemitismo. Piuttosto di paura nei confronti dei pedofili, uno dei quali potrebbe in qualsiasi momento costituire un vero pericolo per i nostri figli o nipoti. Ma se è vero che questa paura è giustificata e comprensibile (anzi, se è vero che l'assenza di questa paura sarebbe colpevole e incosciente), non è altrettanto vero che la diffusione di notizie non verificate né verificabili non fa altro che trasformare quella paura in paranoia, oltre ad infangare in maniera ignobile un certo numero di persone perfettamente innocenti?
Forse è bene ricordarsi ciò che canta Don Basilio nel Barbiere di Siviglia di Rossini:
La calunnia è un venticello / un'auretta assai gentile / che insensibile, sottile / leggermente, dolcemente / incomincia a sussurrar. / Piano piano, terra a terra / sotto voce, sibillando / va scorrendo, va ronzando. / Nelle orecchie della gente / s'introduce destramente / e le teste ed i cervelli / fa stordire e fa gonfiar. / Dalla bocca fuori uscendo / lo schiamazzo va crescendo: / prende forza a poco a poco, / scorre già di loco in loco, / sembra il tuono, la tempesta / che nel sen della foresta, / va fischiando, brontolando / e ti fa d'orror gelar. / Alla fin trabocca e scoppia, / si propaga, si raddoppia / e produce un'esplosione / come un colpo di cannone, / un tremuoto, un temporale, / un tumulto generale / che fa l'aria rimbombar. / E il meschino calunniato, / avvilito, calpestato / sotto il pubblico flagello / per gran sorte va a crepar”.
Se non si vuole correre il rischio che qualcuno se ne “vada a crepar” seppure innocente, forse sarebbe bene astenersi da calunnie, illazioni, diffusioni di “informazioni” anonime e cose del genere. Anche quelle fanno parte della macchina del fango.